Il “Giorno della marmotta” di un Paese spaccato

ROMA – Inutile fermarsi a piangere, lasciarsi andare alle solite affermazioni retoriche, alle solite colate di frasi fatte e luoghi comuni, alle promesse di cambiamento alle quali, giustamente, nessuno crede più e alle richieste di istituire commissioni d’inchiesta che servono unicamente a prendere tempo e a far vedere che lo Stato e le istituzioni sono comunque presenti.

Inutile ingannare ancora questo Meridione disperato, in cui per spostarsi da una località all’altra occorre lo stesso numero di ore che si impiega per andare in aereo da Roma a New York o in treno da Roma a Parigi.

Inutile assicurare che il governo farà, il Parlamento approverà, le istituzioni locali provvederanno, con questa serie di verbi coniugati al futuro che irritano e basta, in quanto ogni rinvio da quelle parti viene vissuto come una dilazione eterna e da domani a mai il passo è breve. 

Bisogna, al contrario, avere il coraggio di dire le cose come stanno e le cose stanno più o meno così: l’Italia, di fatto, non esiste. Esistono tre aree geografiche. Una che, nonostante i colpi inferti dalla crisi, tutto sommato ancora si regge in piedi, con alcune città che godono di un livello di reddito nord-europeo e altre che, pur arrancando, riescono comunque a garantire almeno i servizi essenziali alla maggior parte dei cittadini. E questo è il Nord. Poi c’è un’area che storicamente beneficia di amministrazioni abbastanza illuminate, le quali non hanno mai tagliato su welfare e servizi e, pur non avendo un soldo, rubando un po’ meno che altrove e gestendo con oculatezza le risorse pubbliche, stanno consentendo all’economia di rimettersi in moto. E questo è il Centro. Infine, spiace dirlo, ma esiste un’area che, al netto di poche isole felici, è più vicina a standard di vita nord-africani che europei, fra miseria, disperazione sociale, disoccupazione a livelli greci, corruzione a sfascio, mafie e forme di criminalità variegate, la totale assenza di qualunque forma di legalità e di giustizia che non sia la legge del più forte e cacicchi locali assetati di potere e di voti che sull’arretratezza, l’ignoranza e il bisogno di sbarcare il lunario in qualunque modo, comuni a una ridda di persone, hanno edificato la propria ignobile carriera. Quest’ultimo si chiama Sud e le sue condizioni complessive non sono poi così dissimili dalle descrizioni di Verga, di Jovine o di altri grandi narratori delle terre del brigantaggio e della latitanza dello Stato.

In Puglia la situazione è leggermente diversa, in quanto sia Vendola che Emiliano hanno fatto il possibile per contrastare questa barbarie e qualche risultato lo hanno anche ottenuto, se non altro amministrando in maniera pulita ed evitando l’ulteriore diffondersi di fenomeni criminali e sacche di piccola delinquenza ampiamente diffuse. Fatto sta che la tratta sulla quale è avvenuta la tragedia che è costata la vita a ventitré persone, a causa dello scontro di due treni sulla Corato-Andria, era stata inaugurata da Aldo Moro nel ’65, ossia cinquantuno anni fa, e da allora alle promesse di un raddoppio dei binari non è seguito nessun atto concreto. 

E poi vi chiedete per quale motivo da quelle parti trionfino i cosiddetti “populismi”? Vi chiedete per quale motivo la gente non si fidi più di nessuno? Vi chiedete per quale motivo questo gattopardismo costante, questo perpetuo “Giorno della marmotta” in cui lo scenario non cambia mai e si vive sempre immersi nel medesimo incubo abbia ormai fiaccato la resistenza di chi ha smesso da tempo persino di indignarsi? Ma soprattutto, vien da chiedersi con quale faccia i soliti papaveri verranno a blaterare di grandi opere, TAV, ponte sullo Stretto di Messina e altre bestemmie contro il paesaggio, il territorio e la dignità umana quando ancora in molte zone d’Italia si viaggia su tratte a binario unico, dunque pericolosissime, e persino il ricco Nord, undici anni fa, conobbe fra Bologna e Verona, precisamente a Crevalcore, la sua tragedia ferroviaria con annessi morti.

Il guaio è che tutto ciò accadrà, in quanto lor signori sanno bene che l’indignazione a breve svanirà, che il sangue si asciuga più un fretta di quanto non si pensi, che le telecamere fra una settimana non ci saranno più e che fino al prossimo incidente mortale potranno dormire sonni tranquilli e andare avanti indisturbati con la loro pubblica amministrazione volutamente inefficiente, la loro burocrazia asfissiante, i loro tangentifici sempre in funzione, la loro macchina clientelare dagli ingranaggi ben oliati e il loro cinismo senza eguali che ha devastato un Paese le cui risorse, se solo le si sapesse sfruttare e valorizzare a dovere, sarebbero infinite. 

Al che vien da dire che la spaccatura cui stiamo assistendo ormai da decenni, oltre che geografica, è una linea di faglia assai più profonda, in quanto divide il Paese in due categorie ben precise: le persone oneste e i farabutti, con i primi che il più delle volte muoiono o comunque rischiano la vita lavorando o spostandosi in condizioni disumane e i secondi che si arricchiscono alle loro spalle e quasi godono nell’osservare queste formiche che soggiacciono a condizioni indegne per salvaguardare la propria dignità e quella della propria famiglia, entrambe guadagnate al prezzo di immani sacrifici. 

Ora è accaduto in Puglia, domani accadrà da qualche altra parte, poi le luci si spegneranno, il sipario calerà, le autorità accorse sul luogo del disastro per mere ragioni di circostanza faranno ritorno a casa e il novantanove per cento della popolazione continuerà ad attendere giustizia, verità e che qualcuno paghi per le proprie malefatte, ormai rassegnata alla scomparsa di ogni utopia, prigioniera della propria rabbia, del proprio sconforto e di quel senso di impotenza collettiva che è ciò che sta uccidendo la nostra società.

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