Digital Labour. Licenziamenti per robot fuori dall’industria

È impensabile continuare ad ignorare l’impatto che la robotizzazione e l’Intelligenza artificiale produrranno nei prossimi anni dentro le nostre società. Lavoro, merci, relazioni, politica, diritti. Tutto è ridescritto ad una velocità senza precedenti.

Come per molte altre svolte produttive degli ultimi 30 anni, molte persone, molte strutture sindacali, sociali o politiche, si sono concentrate sugli effetti della trasformazione del lavoro avendo nella propria mente ciò che queste trasformazioni avrebbero prodotto all’interno della cosiddetta “fabbrica”. L’effetto delle ricadute – occupazionali, professionali, retributive – venivano misurate sull’occupazione che, con semplificazione, veniva detta “operaia”.

Certo la trasformazione della fabbrica, in questi anni, è stata massiccia e non solo non è ancora terminata, ma rischia di vivere una nuova fase di accelerazione. La produzione di merci è investita da una nuova rivoluzione industriale (in Europa chiamata Industria 4.0) che produrrà effetti non ancora calcolabili dal punto di vista sociale e occupazionale. Il bello è che gli stati europei corrono a finanziare questa destrutturazione incontrollata degli assetti produttivi attuali – con le connesse conseguenze occupazionali – spesso con l’avallo di strutture sindacali che non hanno compreso, fino in fondo, il senso della partita e si illudono che questo salto tecnologico sia uguale a quello vissuto a cavallo degli anni ’30-’60 del secolo scorso. Una miopia che pagheremo tutti caramente.

Questa rivoluzione tecnologica, infatti, è strutturalmente diversa dalle altre, pone questioni diverse e generalizzate. Il passaggio ulteriore che stiamo vivendo in questi mesi è l’arrivo dei software di intelligenza artificiale. Questa generazione di software – solo la prima della serie, quasi una fase “beta”, per dirla in termini informatici – sta già dispiegando i suoi primi effetti e, per la prima volta, il punto di partenza sembra non essere la fabbrica, ma i settori di produzione di servizi.

È in questi ambiti, infatti, che la produzione di algoritmi capaci di “sussumere” analisi di dati, sviluppare procedure, prendere decisioni o, al massimo, predisporre tutto per un visto finale “umano”, rischia di investire molti lavori “impiegatizi”, funzioni professionali. Pensiamo ai commercialisti e agli avvocati, ad esempio, ma anche a funzionari di banca, direttori, analisti finaniari, giornalisti e l’elenco sarebbe lunghissimo, m proveremo a farlo nei prossimi post. Questa nuova forma di organizzazione produttiva immetterà una distanza siderale tra le forme dell’organizzazione delle aziende e quelle delle pubbliche amministrazioni, che si presume resisteranno fortemente alla riorganizzazione attuabile con tale rivoluzione. Il risultato sarà di trasformare, agli occhi delle persone, la stessa “funzione pubblica” in una struttura obsoleta.

È di questi giorni la notizia che una assicurazione giapponese la “Fukoku Mutual Life”, ha sostituito – licenziandoli – 34 impiegati con un software, calcolando che questa scelta aumenterà la produttività del 30%, con un risparmio di 140 milioni di yen (11,5 milioni di euro) in soli due anni.

Domandiamoci se è ancora possibile discutere di strategie economiche, di politiche economiche, di compatibilità delle istituzioni del welfare (sanità, pensioni, scuola, ecc.) in un mondo che sta per subire uno “tsunami digitale” che i governanti non comprendono, che i top manager calcolano solo per le ricadute interne alle mura domestiche, che i sindacati non vedono o non sanno cosa dire, che le forze politiche ignorano perché tutte concentrate sugli aspetti “finanziari” della crisi. A nulla valgono le pubblicazioni di studi che annunciano, per i prossimi 10-15 anni, la cancellazione della metà dei posti di lavoro attualmente esistenti.

Quando vent’anni fa iniziammo, nel Settembre 1996 – Consulta Nazionale della Comunicazione di Rifondazione Comunista , a lanciare l’allarme – ma anche le possibili opportunità – la sinistra sembrò non accorgersi di ciò che stava accadendo. Certo, avessimo iniziato a mettere in campo conflitti adeguati a ciò che si stava preparando già da allora, ora staremmo tutti più avanti, avremmo già immesso anticorpi avanzati e impedito la frattura tra il linguaggio della sinistra e quello dei ventenni.

Ma oggi? Com’è possibile continuare ad ignorarlo? Restare bloccati negli schemi consunti e definitivamente sconfitti? Possibile che continui, da tre decenni, l’incomprensione che la tecnologia digitale è ubiqua, che la nuova era non riguarda “chi” lavora nei settori tecnologici, ma l’intera umanità? Che non riguarda il lavoro “nel” digitale, ma il lavoro “con” il digitale? Questo intendiamo noi con Digital Labour, non l’analisi delle condizioni di lavoro del comparto tecnologico digitale, ma l’impatto di queste nuove potenzialità con la condizione generale del lavoro e della forma dell’umano. Per non subirla, per utilizzarla costruendo una nuova modalità di vita dell’umanità in questo mondo.

È proprio in un momento come questo che le organizzazioni politiche e sociali che avevano a riferimento il mondo del lavoro dovrebbero battere un colpo. Sul piano teorico per comprendere cosa sta accadendo e sul piano politico per socializzare una lettura di questi processi e indirizzare le forme del conflitto necessarie ad affrontarli. Serve comprendere teoricamente la trasformazione che è in atto, capire i cambiamenti del mondo del lavoro, avanzare ipotesi in grado di generare nuove forme di conflitto. Serve una lettura dei fatti che stanno accadendo per dare ai lavoratori, investiti dai processi, strumenti di racconto, di comprensione, di riorganizzazione.

Bisognerebbe comprendere che, all’interno dello schema “capitale-lavoro” ereditato dagli ultimi due secoli, c’è solo la possibilità di una società che mantiene al “lavoro salariato” una minoranza della popolazione e la restante parte dovrebbe sopravvivere attraverso strumentazioni reddituarie di tipo sussidiario. Tutto per restare all’interno dello schema capitale-lavoro esistente. Bisogna smontare l’illusione della “ricorsività tecnologica” – la sostituzione di nuovi lavori con quelli che vengono cancellati – per questa rivoluzione tecnologica basata sul digitale, per la sua qualità, la sua ubiquità, la sua velocità. Bisogna avere il coraggio di avanzare soluzioni “altre” dall’esistente.

Oggi, infatti, si aprono nuove possibilità. Sfruttando le forme dell’intelligenza collettiva diffusa e quelle delle tecnologie produttive digitali di nuova generazione – che il capitale vorrebbe utilizzare all’interno dello schema industria 4.0 – è possibile pensare a nuove forme di produzione sociale, extra-mercantili, basate cioè sulla produzione diretta di “valore d’uso” e non di “scambio”. Una rivoluzione in grado di puntare sul riuso, sul riciclo, sulla produzione diretta, su fattori di scambio basati non sulle attuali monete, ma su tecnologie di tipo “Blockchain”. Una vera e propria possibilità di intravvedere una “fuoriuscita” controllata dalla forma capitalistica della vita. Noi di Net Left, da più di un decennio, ci battiamo su questa faglia, poco ascoltati, spesso ignorati. Ma oggi la strada risulta obbligata.

Le forze tradizionali sembrano, invece, inerti, passive, incapaci di “comprendere” la portata degli eventi, rimanendo ancorate a forme di conflitto e di rivendicazione che guardano più al “come eravamo” che al “come potremmo essere”. Bloccate su discussioni o puramente istituzionali o sul conflitto interno alla gestione del modello sociale e politico che è andato in frantumi con la crisi del 2008. Quando va bene occupate a denunciare i dolori sociali di tale modello. Dolori che le persone conoscono meglio di chi vorrebbe spiegarglieli.

C’ è necessità di uno scarto, di una mossa del cavallo. C’è la necessità di una nuova politica che sappia intravvedere le potenzialità aperte dalla nuova fase e progettare la transizione verso un nuovo modello economico-sociale. Ma questo non può essere fatto “in continuità”. Su questo hanno ragione quelli che affermano che la sinistra, le sinistre, nel vecchio continente, sono all’ultima chiamata.

Ma la sinistra riparte solo se ha una lettura nuova, aggiornata, della forma del “Lavoro” verso cui sta andando il “Capitale”. Mettendo in campo nuovi conflitti e nuovi orizzonti. Non invocando ricomposizioni organizzativistiche tra i residui di quello che fu.

La nuova fase del capitale, quella digitale, ci impone questo terreno ma ci consente di aprirci a soluzioni inedite e fino a ieri impensabili.

P.S. – Una delle funzioni, forse la principale, della cinematografia e della pubblicità è quella di costruire il senso di marcia degli eventi, anticipando, alludendo, abituando i consumatori alla forma dell’ambiente che vivranno, anche sottolineando le storture e gli svantaggi o addirittura le malignità delle cose che stanno arrivando. Da anni la cinematografia si sbizzarrisce sul tema dei robot intelligenti e della loro interazione con la sfera umana, anche raccontando futuri conflitti di “specie”. La pubblicità è meno profetica, sempre concentrata a produrre risultati più ravvicinati, misurabili sulle quote vendite delle singole aziende, dei singoli prodotti. Ma la trasformazione deve essere proprio incombente se una struttura che riproduce, nell’immaginario collettivo del paese, la rappresentazione del pachiderma burocratico-amministrativo italico, come Poste Italiane, si è lanciata nella distribuzione di uno spot che punta tutto sul desiderio di un robot di diventare umano. Digital Labour. I tempi sono proprio maturi!

 

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