Don Milani e il bisogno di autenticità

Quando don Lorenzo se ne andò, vinto da un tumore che lo strappò alla vita a soli quarantaquattro anni, eravamo alla vigilia delle ribellioni sessantottine che avrebbero animato il decennio successivo. 

Un rivoluzionario, senza dubbio, un sognatore e un utopista, certo, ma anche una personalità estremamente concreta e costruttiva quella di questo atipico sacerdote toscano che, spedito per punizione in uno sperduto paesino del Mugello (Barbiana, dalle parti di Vicchio), inventò un modello di scuola destinato a rivoluzionare l’immaginario collettivo dei suoi studenti e dei molti che hanno approfondito le caratteristiche di questo miracolo, frutto della determinazione e del senso di repulsione di questo galantuomo verso ogni ingiustizia.

C’era in lui l’istinto del montanaro e la profezia del santo, la schiettezza del toscanaccio e la fragilità di un uomo tanto avversato dalla gerarchia ecclesiastica quanto sicuro che, prima o poi, le sue idee sarebbero state capite. 

C’era in lui una passione e un sincero amore per il prossimo nonché un disprezzo convinto e viscerale per i dogmi, per una parte dei superiori, per l’ordine costituito, per un’epoca ancora bigotta e oscurantista, per gli eccessi di zelo e per quanti non riuscivano a vedere nei suoi ragazzi una risorsa autentica per la società. 

Scrisse, ad esempio, un testo dedicato all’obiezione di coscienza al servizio militare in cui uno dei passaggi più celebri recita: “Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.

E ancora, in una delle riflessioni politiche più significative del Novecento: “Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. 

La scuola di don Lorenzo era un luogo dove si andava ad imparare davvero, dove i poveri e gli ultimi venivano accolti con umanità e rispetto, dove in classe si leggeva il giornale e si imparava a pensare con la propria testa, a ragionare sui singoli problemi e a considerarli nel loro insieme, facendosi carico delle esigenze degli altri, ribellandosi ai soprusi e mettendo in discussione i totem e i tabù di una società ancora arretrata ed incapace di comprendere la voglia di riscatto delle classi subalterne. 

Scriveva “I care”, don Lorenzo, proprio come i ragazzi dei campus americani in lotta contro la strage del Vietnam e, successivamente, i ribelli francesi che volevano essere realisti chiedendo l’impossibile, al pari di Ernesto Guevara de la Serna detto il “Che” e, in seguito, dei protagonisti italiani di quella stagione irripetibile, nei suoi aspetti positivi e anche, ovviamente, nelle sue contraddizioni. 

Credeva in una società aperta, don Lorenzo, e la forza della sua predicazione era la lungimiranza, il suo essere sempre avanti, il suo essere un precursore di ciò che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, il suo essere un esempio e un punto di riferimento per tutti coloro che accorrevano a Barbiana per respirare un po’ d’aria pura, in contrasto con le ipocrisie e la grettezza che anche al tempo abbondava un po’ ovunque. 

Contrastato, deriso, isolato, visto come un sovversivo e considerato un soggetto da tenere a debita distanza da qualunque santuario del potere, don Lorenzo riuscì, con la forza delle sue idee, della sua visione del mondo e diremmo quasi della sua ideologia, ad incidere in maniera decisiva sui destini di un secolo, predicando e scrivendo dal suo eremo sperduto e restituendo ai figli di nessuno, schifati e disprezzati da tutti, il senso di essere una comunità e la fiducia in se stessi.

Morì esattamente mezzo secolo fa, il 26 giugno del ’67, e pochi giorni fa papa Francesco è voluto andare a rendergli omaggio, fermandosi a pregare sulla sua tomba e su quella di un altro rivoluzionario di quegli anni: don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, secondo cui la filosofia dell’adesso andava declinata non nel senso frettoloso e furente in cui la si intende oggi ma nel senso di un bisogno urgente di protagonismo collettivo, di azione incisiva, di riflessione corale e proficua sui drammi di allora e di sempre. 

Non a caso, il laico Biagi sosteneva che i tre grandi rivoluzionari del Novecento fossero stati altrettanti sacerdoti: don Milani, don Mazzolari e don Zeno di Nomadelfia, fondatore della comunità dell’amore.

Aveva ragione, in quanto tutti e tre, e don Milani in particolare, incarnavano quel bisogno di autenticità, di bellezza interiore, di purezza, di gentilezza e di riscoperta del senso dell’umano di cui papa Francesco ha fatto la propria ragione di vita e il significato stesso del suo pontificato. 

Don Milani, cinquant’anni dopo. Per non dimenticare: né gli elogi postumi né il disprezzo con cui dovette fare i conti in vita, solo per essersi opposto alla barbarie di una società escludente.

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