Il caso Niceta. Bisogna riformare l’Istituto dei testimoni di giustizia

Angelo Niceta sta raccontando alla magistratura requirente palermitana le collusioni della sua famiglia con il gotha mafioso (da Bernardo Provenzano a Matteo Messina Denaro). Sia Antonino Di Matteo sia Pierangelo Padova hanno chiesto per lui l’estensione dello status giuridico di testimone di giustizia. La Commissione Centrale del Ministero dell’Interno ha primo concesso e poi negato tale beneficio ritenendo Niceta un collaboratore di giustizia.

A tal proposito è bene precisare che esiste una netta differenza tra collaboratori e testimoni di giustizia. I primi, sono persone che hanno un passato di appartenenza a un’organizzazione criminale, i secondi, sono cittadini incensurati. I collaboratori sottoscrivono una specie di contratto con lo Stato basato sulla fornitura di informazioni provenienti dall’interno dell’organizzazione criminale in cambio di benefici processuali e penitenziari, della protezione e del sostegno economico per sé e per i propri familiari. I testimoni, invece, forniscono la loro testimonianza sull’accadimento di un fatto delittuoso e per tale ragione hanno una protezione da parte di organismi dello Stato appositamente creati. In molti casi, si tratta di commercianti che si rifiutano di pagare il “pizzo” o di persone non più disposte a continuare a pagare interessi a tassi usurai concessi loro da membri dell’organizzazione criminale. Le dichiarazioni dei collaboratori e quelle dei testimoni per essere credibili devono essere oggettivamente riscontrate dagli investigatori al fine di costatarne la loro veridicità. Appurato che la collaborazione o la testimonianza sono veritiere, i collaboratori e i testimoni di giustizia sono inseriti in un apposito programma di protezione, introdotto in Italia per la prima volta con la legge 15 marzo 1991 n. 82. Una specifica Commissione ministeriale, denominata Commissione centrale, presieduta da un sottosegretario di Stato e composta di magistrati e investigatori di comprovata esperienza nelle indagini sulla criminalità organizzata, valuta e decide l’ammissione dei soggetti allo speciale programma di protezione, nonché la modifica e la revoca dello stesso. La struttura che attua il programma di protezione è il Servizio centrale di protezione, il quale si occupa dell’assistenza e della promozione di misure per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma. Il Servizio mantiene i rapporti con le Autorità Giudiziarie e di Pubblica Sicurezza, nazionali ed estere, nonché con i competenti organi dell’Amministrazione Penitenziaria e con tutte le altre Amministrazioni centrali e periferiche eventualmente interessate. Attraverso i Nuclei Operativi, con competenza regionale o interregionale, il Servizio centrale di protezione cura la diretta attuazione delle misure di assistenza offrendo il necessario supporto alle diverse esigenze delle persone protette. Nel 2001, la legislazione in materia di collaboratori di giustizia è stata modificata dal Parlamento. La legge 13 febbraio 2001, n. 45 ha stabilito innanzitutto una formale e netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia nonché un diverso regime giuridico di trattamento tra le due figure. Ha stabilito criteri più rigidi per la selezione delle collaborazioni; ha introdotto il limite temporale di centottanta giorni, periodo entro il quale il collaboratore deve confessare tutte le informazioni e gli elementi di cui è a conoscenza; infine, ha introdotto, per l’ammissione ai benefici penitenziari, dei limiti di pena da scontare in carcere nella misura di un quarto della pena inflitta e, in caso di condanna all’ergastolo, di dieci anni di reclusione. 

Chi decide di testimoniare offre un contributo determinante nella lotta al crimine organizzato ed espone se stesso e la sua famiglia a rischi nella sicurezza personale ed a disagi profondi che segnano l’esistenza. La loro vita è sconvolta perché, in ossequio al dovere di cittadinanza, hanno testimoniato di fatti criminosi o atti violenti. Chi ha deciso di continuare a vivere nei luoghi dove sono avvenuti i fatti che ha denunciato è più di un testimone di giustizia. Diventa un testimone di legalità ed un esempio contro l’efficacia delle intimidazioni e dell’omertà. Lo Stato deve saper cogliere queste risorse strategiche, perché la libertà si conquista restando in trincea. Se mi metto nei panni di chi ha scelto di restare, mi rendo conto di quanto difficile sia la sfida.

C’è il rischio di essere isolati da una comunità, le persone che prima salutavano non rivolgono più lo sguardo e non degnano di una parola. In queste condizioni è quasi impossibile immaginare un reinserimento a pieno titolo. Come fa ad esempio un imprenditore a lavorare in un ambiente simile? Questa è una sfida anche culturale, da vincere a tutti costi, perché le mafie si sconfiggono nei tribunali ma anche giorno dopo giorno, grazie al coraggio di chi, essendone stato vittima, ha avuto la forza e il coraggio di denunciare. L’Italia deve tutelare i testimoni di giustizia con ogni mezzo, poiché, “le persone oneste che vanno a denunciare lo fanno a rischio e pericolo della loro vita e perché credono ancora nella legalità e nella giustizia”. Giovanni Falcone era convinto che lo Stato, dopo averne sfruttato chi aiuta la giustizia, una volta avuta la sua testimonianza-confessione non può abbandonarlo, dimenticandolo. L’esperienza indiscussa di Falcone lo porterà a sostenere l’utilità processuale di chi collabora con la giustizia e la necessità di una legislazione adeguata in materia. Dopo venticinque anni riteniamo debba essere perfezionata la definizione e la tutela dei testimoni di giustizia, così da distinguerli nettamente dai collaboratori di giustizia. Vi sono alcune proposte di riforma che vanno in tal direzione andando a incidere proprio sulla definizione del testimone di giustizia, ancorata a parametri più stringenti e specifici.

Aspetti da affinare dal punto di vista giuridico sono la personalizzazione e gradualità delle misure. In tale ambito è data preferenza nell’adozione di misure di tutela nella località di origine rispetto al trasferimento in località protetta, adottato col programma di protezione. Per evitare l’isolamento economico deve essere garantita la possibilità per il testimone di avere misure di sostegno finanziario anche nel luogo di residenza, in presenza di riduzione della capacità di reddito (attualmente garantite dal solo programma di protezione). Tale misura vanno ovviamente estese anche a salvaguardia dell’impresa del testimone.  Sarebbe auspicabile anche l’istituzione di un referente del testimone di giustizia, che garantisca a quest’ultimo un riferimento certo nei rapporti con le istituzioni, assicurando una piena assistenza al testimone per tutte le sue necessità. Ancor oggi chi denuncia le mafie, specie se imprenditore o commerciante, chiude inesorabilmente a causa della violenza e prepotenza mafiosa o per un effetto perverso di un crollo delle commesse, pubbliche e private, a seguito della denuncia di estorsione. Ai testimoni di giustizia va riconosciuto il carattere di coraggio civile che rappresentano. Sono persone che per la legalità hanno messo e mettono a repentaglio la propria vita, i propri affetti, il proprio lavoro, un’intera vita che vanno tutelate perché antepongono la verità e lo Stato al proprio personale interesse, rifiutando l’omertà, il silenzio, ma si fanno carico di una lotta che si deve vincere contro le mafie. La burocrazia, spesso contorta e macchinosa, non può rappresentare il principale freno della lotta alle mafie oltre al fatto che preoccupano le condizioni di Angelo Niceta che non mangia da circa tre settimane e viste le attuali condizioni di salute di Angelo rischia la propria vita per far valere un diritto costituzionalmente garantito. Come Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise auspico che tale situazione possa trovare soluzione immediata grazie all’intervento del Ministro dell’Interno e del Presidente della Repubblica. Noi come associazione antimafia seguiremo direttamente il caso essendo stati investiti della questione sia dal diretto interessato che dal comitato palermitano in sua difesa che ha già raccolto oltre venticinquemila firme.

 

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