Così il cinema italiano ha raccontato l’Italia

Più di un  secolo di storia nazionale  in dodici indimenticabili  film  d’autore 

Negli ultimi cento anni, il rapporto degli italiani con la politica, salvo lodevoli eccezioni come la guerra partigiana o la lotta al terrorismo, sembra sia stato sempre improntato alla regola “O Franza o Spagna purché se magna”: non importa chi comanda purché garantisca la soddisfazione dei bisogni primari.

Insomma, non si sono fatti molti progressi da quando agli antichi romani, pur di tenerseli buoni, l’imperatore offriva  panem et circenses. In conclusione,  sono stati cento anni vissuti dagli italiani  spesso all’insegna dell’improvvisazione, talvolta di una disastrosa immaturità politica.

E il cinema italiano come ci ha rappresentati? E’ innegabile,  il nostro cinema ha descritto  anno dopo anno l’Italia dell’ultimo secolo con film di cui sono autori  i nostri maggiori registi, dimostrando in questo  un lodevole impegno  culturale oltre che politico e sociale.  In rapida sintesi abbiamo scelto tredici titoli fra i più significativi. 

A cominciare da 1860 che Alessandro Blasetti girò nel 1934 sull’epopea garibaldina con chiari intenti propagandistici: mentre il fascismo tentava di accreditarsi come l’erede naturale del Risorgimento, Blasetti, autore molto vicino al regime, spiegò che con il suo film “metteva in scena il passato per parlare del presente ed evocare l’atmosfera del 1860 per molti aspetti simile a quella del 1922”. Ideologia a parte, quel film resta   il suo capolavoro.

In materia di rievocazioni, molto  meglio avrebbe fatto 43 anni dopo, nel 1977, Ettore Scola con  Una giornata particolare nell’inquadrare dalle finestre di una casa popolare la storica visita di Hitler a Roma, il 6 maggio 1938, facendo respirare allo spettatore l’atmosfera degli “anni del consenso”.

Dalla prima guerra mondiale, nel 1918, l’Italia era uscita  vincitrice e insieme malconcia.  Un film epico  la rappresenta con vigore: La grande guerra  di  Mario Monicelli, (1959) protagonisti Vittorio Gassman e Alberto Sordi nelle striminzite divise da fantaccini da trincea, ma con una tempra  da involontari eroi. 

Dall’Unità d’Italia (1861) eravamo  stati sudditi dei Savoia (quando  l’analfabetismo era al 78 per cento). Dopo la prima guerra mondiale,  per vent’anni,  quasi tutti fascisti sotto  Mussolini che s’impose  dicendo che avrebbe costruito una nazione moderna (ma l’analfabetismo era sempre a livelli incredibili) buttando quanto c’era di vecchio e cambiando le regole. In realtà, ha soprattutto eretto un monumento a se stesso per concludere poi il suo regime gettando l’Italia nella seconda guerra mondiale.  Un evento che ha avuto grandi autori cinematografici: nel 1960 Luigi Comencini ha raccontato   in Tutti a casa quello che gli italiani dovettero subire dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, e le sue conseguenze su un Paese allo sbando. Sull’occupazione nazista Roberto Rossellini aveva già descritto,  nel 1945, le condizioni  di una città tormentata: Roma città aperta è un manifesto che resta   a ricordare  un’Italia tradita. E quattro anni dopo Vittorio De Sica ha fatto  con Ladri di  biciclette un vivido ritratto dei primi anni  del dopoguerra, vincendo nel 1950 un Oscar speciale. Ugualmente premiato con l’Oscar il film che Roberto Benigni  ha girato nel 1977 sulla persecuzione degli ebrei italiani: La vita è bella, poetico, di  forte significato, ha rivelato un autore cinematografico d’eccezione. 

Con l’avvento della repubblica nel 1946 (e due anni dopo con le elezioni  alle quali le donne hanno votato per la prima volta) gli italiani diventarono (in maggioranza)  democristiani con la DC,  o (in minoranza) comunisti  con il PCI. E il cinema registrò tutto. Quando arriva il “miracolo economico” degli  anni  Sessanta. con Mani sulla città   Francesco Rosi  firma una  coraggiosa denuncia  del nascente fenomeno della speculazione edilizia destinato a  deflagrare negli anni a venire. E quando le conseguenze del malaffare diffuso non tardano a farsi sentire, e al benessere subentra il decadimento dei costumi, nel 1960 Federico Fellini ne è lo straordinario narratore  con la Dolce vita, che resta uno dei capolavori del cinema mondiale. Di tutt’altra cifra, ma l’anno è lo stesso, Luchino Visconti affronta con Rocco e i suoi fratelli il problema dell’emigrazione interna dal  Sud contadino al Nord industrializzato, l’abbandono dei campi, il richiamo della fabbrica.

Dei protagonisti della vita politica italiana degli  anni a seguire, il cinema  sforna vividi ritratti: nel 2008 è la volta di  Giulio Andreotti  di cui   Paolo Sorrentino, ne Il divo, racconta la carriera e implicitamente  un pezzo di storia italiana. Poi toccherà a Berlusconi: dopo “mani pulite”, e il crollo del sistema dei partiti, gli italiani  mandano al potere il cavaliere (destinato peraltro ad essere un giorno disarcionato) ancora una volta per quasi un ventennio. E nel 2006 il cinema gli dedica uno spigoloso ritratto con Il caimano  di Nanni Moretti. Oggi è Paolo Sorrentino a puntare l’obiettivo della sua macchina da presa sul Berlusconi redivivo e già si avvertono venti di guerra: il Cavaliere ha la pelle dura, difficile scalfirlo senza che alzi grida di protesta. Erano gli anni in cui  un Montanelli ravveduto e purtroppo inascoltato diceva: “Dobbiamo aspettare che gli italiani si facciano passare  l’ubriacatura per Berlusconi”. E quando Berlusconi sembrava avesse passato la mano,  lo stesso Sorrentino nel 2013 con La  grande bellezza dà un vivido  ritratto di una città decadente come Roma, presa a simbolo di un Paese intero penosamente  ripiegato su se stesso e apparentemente senza prospettive immediate di ripresa. 

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