A Firenze Banksy. Gianluca Marziani, le immagini chiave per comprendere l’artista

Un’esposizione molto “asciutta e analitica”. Ventidue immagini selezionate, supportate da un grande lavoro testuale. “Da questa mostra si esce sicuramente con una idea più chiara”

FIRENZE – “BANKSY. This is not a photo opportunity” è il titolo della mostra ospitata a Palazzo Medici Riccardi, dal 19 ottobre 2018 al 24 febbraio 2019. Gianluca Marziani, co-curatore insieme a Stefano Antonelli, ci racconta il suo punto di vista su questa figura geniale dall’anonimato ferreo e molto più di un semplice street artist.

Il progetto ha un precedente nella mostra, già curata da Antonelli nel 2016 a Palazzo Cipolla, dal titolo “Guerra, Capitalismo & Libertà”. L’esposizione era stata resa possibile grazie al rapporto di fiducia instaurato con lo staff che gestisce il lavoro di Banksy e che ne autorizza la vendita e la distribuzione.

“Anche questa fiorentina” – spiega Marziani – è una mostra costruita in accordo con loro. Noi abbiamo selezionato i lavori e li abbiamo ricevuti dal gruppo inglese che, tra Bristol e Londra, collabora con Banksy”.

E’ bene specificarlo dunque. Come, infatti, ribadisce il curatore: “è sicuramente una questione molto complessa e delicata quella che riguarda Banksy, perché si fanno molte cose, ma tante sono ‘fuffa’ a tutti gli effetti. Un po’ come accade per tutti i grandi fenomeni”.

“Questa di Firenze – continua – credo sia l’esposizione più seria mai fatta su Banksy. E’ una mostra molto asciutta, analitica. Con Stefano Antonelli abbiamo realizzato un grande lavoro testuale da offrire al pubblico. Alla visione delle 22 immagini più famose di Banksy degli ultimi vent’anni, dal suo esordio nel 1998 ad oggi, (che conosciamo anche dai social), abbiamo accostato un racconto in doppia lingua, creando una sorta di dittico, in cui il testo scritto riporta la genealogia di ogni singolo lavoro: dove e quando è stato realizzato, il perché, i riferimenti, lo sviluppo che ha avuto, la sua commercializzazione. Da questa mostra si esce quindi sicuramente con una idea più chiara”.

Le immagini in rassegna sono serigrafie, un principio metodico che riprende la filosofia di Andy Warhol, ma anche opera consequenziale agli interventi stradali di Banksy. Come il Padre della Pop Art, anche Banksy ha scelto la moltiplicazione seriale: “Stiamo parlando di artisti non da ‘pezzo unico”, sottolinea Marziani. “Quello che a volte confonde le persone è il pensare che queste serigrafie siano la stampa dei lavori di Banksy. Sono invece proprio opere dell’artista, quelle che vanno in asta e per le quali Banksy esiste anche come fenomeno di mercato”.

La bambina con il palloncino, l’opera di Banksy battuta a oltre un milione di sterline, all’ultima asta da Sotheby’s, al di là dell’atto plateale compiuto dall’artista, non è un caso isolato. “Banksy ha già avuto battute d’asta importanti e quotazioni milionarie”.

“I 22 lavori esposti in questa mostra – dice Marziani – sono immagini chiave per comprendere l’artista; restituiscono lo schema radiografico del perché Banksy faccia queste cose, dei principi che ci sono dietro, la sua chiave politica, la lettura del sociale, la sua visione culturale del sistema. Abbiamo poi raccolto, oltre ad alcune chicche, come i tre ‘Black Books’ originali, anche tre poster della mostra di Bristol (Banksy Versus Bristol Museum, 2009 n.d.r) che sono opere ricercatissime, così come la banconota contraffatta Banksy of England”.

Marziani: “Banksy come un Umberto Eco che ha scelto la strada al posto delle aule universitarie”

Può sembrare un paradosso, quasi un azzardo paragonare Banksy a Umberto Eco, due figure apparentemente agli antipodi. Tuttavia, spiega Marziani: “E’ un gioco di rimando sensato, se immaginiamo il fenomeno Banksy ribaltato rispetto al fenomeno intellettuale. Eco, l’ho citato per tutto il lavoro che ha fatto in quarant’anni di lettura dei segni, dei codici, di tutti gli aspetti semiotici che ha elaborato. Banksy è come se fosse – a mio parere – la stessa dimensione riportata su un fattore pratico, sul campo dell’azione e non sul campo del pensiero. Quindi abbiamo da una parte l’interpretazione di accadimenti, di eventi attraverso un pensiero filosofico, mi riferisco ad Eco, dall’altra l’espressione del pensiero filosofico attraverso le azioni elaborate e realizzate da Banksy nel corso della sua carriera. Credo – continua Marziani – che in entrambi ci sia una grandissima capacità di lettura dei segni e dei codici urbani. Eco l’ha fatto ai suoi tempi interpretando la società e i costumi degli anni Settanta e Ottanta. Bansky lo sta facendo in un contesto post-mediale, dei social media, della cultura digitale, che è ormai quasi post-digitale” .

L’immaginario di Banksy e la capacità di analizzare, sintetizzare e comunicare con ironia le contraddizioni del nostro tempo

“Bansky ha sicuramente una capacità altissima di analizzare e sintetizzare argomenti chiave, macro fenomeni come la guerra, la violenza, la discriminazione razziale, le tematiche legate all’infanzia, al ruolo della donna, al mondo animale, all’ecologia. La sua forza – evidenzia Marziani – sta nel comunicarli con una sottile ironia, rendendoli più accessibili, più semplificati nei codici, ma allo stesso tempo estremante potenti e catartici”.

Banksy insomma ci mette di fronte a uno specchio, a ciò che realmente siamo o quello che siamo diventati, alle trasformazioni della società, e non fa altro che stigmatizzare alcune situazioni e accadimenti attuali.

“Credo che sia una grande capacità quella di Banksy. L’arte – dice Marziani – deve essere di fatto un codice di sintesi e di veggenza rispetto al mondo esterno. E Banksy, questo riesce a farlo molto bene. L’artista utilizza semplicemente le immagini spostandole su un piano altro. Mi viene in mente l’immagine della ragazzina vietnamita, (Napalm- Can’t beat that feeling, 2004 n.d.r ), che lui ha rielaborato in maniera spaventosa e leggera al tempo stesso, facendola camminare insieme a Ronald McDonald e Micky Mouse. Due simboli della nostra società collegabili al divertimento, alla leggerezza ma che, invece, sono sintesi di tutta la sottocultura americana. Lo stesso accade con altre immagini, come Pulp Fiction (2004), in cui le pistole diventano banane, o i ragazzini che corrono con i giubbotti antiproiettile (Jack & Jill – Police Kids 2005 n.d.r). C’è in Banksy questa capacità molto dadaista o post dadaista e surrealista di metter insieme elementi discordanti, apparentemente inconciliabili, creando un cortocircuito funzionale. Ecco: questo è veramente Banksy”.

Riduttivo definire Banksy semplicemente “street artist”

“E’ come chiamare Michelangelo un artista, Francesco Clemente acquerellista, Jeff Koons scultore” – spiega Marziani.

La definizione di Banksy come street artist è sicuramente comoda, giornalistica, semplificativa, ma a volte appunto riduttiva. Spesso si considera quella degli street artist come “una sottocategoria, sottoposta a vivisezione sociale”. In realtà – sottolinea il curatore – “se parliamo di arte, sono i linguaggi, i contesti che fanno la cifra dell’artista, quindi, Jeff Koons si esprime con la scultura principalmente con un approccio concettuale, così come Damien Hirst o Cattelan. Banksy ha utilizzato la città, la strada, il muro, ma poi ha creato anche installazioni tematiche come Dismaland. Per cui direi che street artist è un po’ riduttivo. Esiste un mondo di street artist che utilizza la strada proprio come superficie pittorica. Nel caso di Banksy l’immagine può essere un soggetto minimo, quasi ininfluente dal punto di vista iconografico. La chiave di Banksy sta nel collocare l’immagine in un luogo specifico e in una determinata maniera. Si tratta di una modalità più complessa rispetto all’idea di arte urbana, il suo è un approccio anche relazionale. La sua è un’arte connettiva che si basa sui codici della comunicazione, ma è anche politica. E’ tante cose assieme. Banksy è un artista che potresti definire con il termine generico di ‘concettuale’, perché le operazioni che fa sono di fatto concettuali. Quella messa in scena da Sotheby’s è un’azione totalmente concettuale, che smonta il marketing attraverso il marketing stesso”.

Banksy, furbizia o genialità

“Molti confondono Banksy con uno furbo. Banksy usa i meccanismi della furbizia o meglio l’intelligenza come un meccanismo che scardina la stessa furbizia. Quella di Banksy è intelligenza, anche se in questo caso dire furbo non è un’offesa, non ha un’accezione negativa. Non c’è nessun artista che riesca a realizzare eventi e farne parlare così tanto. Neppure Damien Hirst con la mostra gigantesca di Venezia (Treasures from the Wreck of the Unbelievable – 2017 n.d.r), o Cattelan con opere come ‘La nona ora’ o i bambini impiccati a Milano. Inoltre queste sono operazioni rare, sporadiche, mentre Banksy è uno che ne fa due all’anno, da almeno vent’anni. Ci vuole davvero una capacità superiore”.

Musealizzare Banksy una contraddizione?

“Se si pensa a Banksy esclusivamente come a un artista di strada c’è una contraddizione” , afferma Marziani. “In realtà, però, c’è sempre stata nel sistema dell’arte. E’ un po’ lo stesso problema che hanno avuto Keith Haring o Basquiat. Se però si considera Banksy come detto finora, quindi un artista più complesso, con una forte chiave concettuale, allora assolutamente no. Non solo musealizzandolo non lo si snatura, ma è anche l’unico modo per assistere allo spettacolo del fenomeno Banksy in maniera più comprensibile e completa. Altrimenti dovremo andare a Gaza, a Brighton, a Bristol o a Londra, fare una specie di Tour. Ma è impossibile, anche perché molti lavori non esistono più, come Dismaland o come i progetti a New York. Questa di Firenze è una mostra (come un po’ tutte quelle su Banksy) documentativa, che però diventa anche esplicativa. Documentiamo le immagini più importanti raccontando Banksy. I suoi modelli, codici, che possono essere stati realizzati una o più volte in un modo non autorizzato, sono come delle matrici vive, che in museo si possono vedere tutte insieme. In questo senso il museo non solo non è un controsenso, ma forse è il modo migliore per vedere Banksy in maniera non commerciale. Sarebbe peggio in una galleria”.

L’anonimato, accresce la curiosità e la notorietà, ma aiuta anche a trasmettere il messaggio in maniera più potente

“ll problema identitario – spiega Marziani – non riguarda solo Banksy. L’anonimato è stato utilizzato in tanti modi, in fondo lo stesso Duchamp ha fatto molte cose in questo senso.

Nel caso di Banksy il discorso dell’anonimato nasce in un contesto e in un momento storico particolare. Il periodo dell’illegalità dell’arte urbana, dei rave.Anonimato significava dunque tutelare la propria libertà. Banksy ha saputo costruire il suo personaggio sull’anonimato e questo è stata la chiave di volta. Rivelare oggi la sua identità significherebbe chiudere la storia del suo personaggio, svelando le istruzioni e le risposte, non avendo più possibilità di andare oltre. In un’epoca narcisistica come quella che stiamo vivendo, dove tutti vogliono dare un nome a una faccia, una faccia a un nome, Banksy si muove in senso opposto. Il suo nome è una firma e quella firma è un logo, ma quel logo non è una faccia. Ovviamente scatena le curiosità più morbose, ma lo aiuta anche a diffondere un messaggio a voce più forte e con più libertà. Spesso non si dicono cose per paura delle conseguenze e delle critiche. Lui è invece in un posizione in cui può dire tutto. In generale l’anonimato aiuta. E’ anche comodo e rende liberi da tutto quello che implica la fama visiva (minacce, fanatismo, stalking)”.

Banksy e Warhol: affinità e divergenze

“Warhol ha vissuto gli anni Settanta a New York. Oggi credo che avrebbe problemi con la sua sovraesposizione. In quegli anni aveva un senso, attualmente sarebbe più difficile. Lo stesso Damien Hirst si mostra pochissimo, Cattelan per vent’anni non si è mai fatto vedere, mandava Massimiliano Gioni a ritirare premi e fare conferenze al suo posto. Tra gli artisti è abbastanza in uso farsi notare il meno possibile, accade anche tra gli scrittori. Sei molto più libero.

La principale affinità tra Warhol e Banksy è sicuramente nell’approccio di diffusione dell’opera e del messaggio. Entrambi hanno lavorato sul principio serigrafico. Questo è il grande punto di vicinanza. Altro aspetto comune è la capacità di sintesi nell’interpretare la società dei consumi e dei costumi.

Warhol, scegliendo Marilyn, Mao tse tung o altri personaggi celebri ha creato una iconografia contemporanea del divismo ritoccato, acrilico, serigrafico. Banksy ha inventato un immaginario non divistico, non basato sul personaggio noto, ma più in generale sulla società. Entrambi si sono espressi in maniera molto critica su certe icone negative. Sia Banksy che Warhol hanno la grande capacità di fare denuncia senza però essere artisti di denuncia, che io trovo molto didascalici. L’arte deve essere sempre un pochino al disopra della media, altrimenti non è più arte è documentario, cronaca, giornalismo”.

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