L’estinzione della specie (con un pizzico di ottimismo)

“Ma forse sono io che faccio parte di una razza, in estinzione.” (G. Gaber) 

Ci meritiamo l’estinzione.

Quante volte abbiamo letto questa frase, specie di questi tempi? In un post o nel virtuale fumetto che esce dalla bocca di un amico indignato. Per stigmatizzare una stupidità fuori misura, qualche discarica abbandonata o l’ennesimo disastro ambientale, umano, politico.

Ma è davvero così?

Rapportandosi al breve periodo, con un presidente americano che contro il Covid consiglia la candeggina, sarebbe difficile dar torto al nostro amico. Se poi estendiamo lo sguardo agli effetti ambientali del lockdown, ci tocca ammettere che senza di noi il pianeta se l’è cavata benissimo. È bastato che il bulletto umano si assentasse solo qualche giorno, causa malattia, per migliorare l’atmosfera in classe. Come per miracolo le acque sono tornate trasparenti, le catene montuose visibili e gli animali liberi di scorrazzare felici. Il breve periodo, però, rischia di essere un metro fallace, per misurare un’evoluzione di specie. Il filosofo Seneca, uscendo dall’anfiteatro, scrive inorridito a Lucilio di come “homo, res sacra homini, iam per lusum ac iocum occiditur”, l’uomo, creatura sacra per gli uomini, venga ucciso per puro divertimento. Ai giorni nostri, nessuno che sia sano di mente troverebbe divertente lo spettacolo di una pantera che sbrana un neonato o di due poveracci costretti a lottare fino alla morte. Ci accontentiamo di ludi decisamente meno cruenti, anche se a volte, vedendo una partita di calcio, si ha l’impressione che le bestie si siano solo trasferite dall’arena agli spalti. Segno che forse c’è ancora qualcosina da migliorare.

Facciamo un piccolo salto e arriviamo al 1099, epoca della Prima Crociata. 

Raimondo di Aguilers nella sua Historia Francorum ci dice che alla caduta di Gerusalemme avvengono autentici miracoli: “Numerosi Saraceni furono decapitati… altri uccisi o costretti a gettarsi dalle torri; altri ancora torturati per parecchi giorni e poi buttati nelle fiamme. Per strada si potevano ammirare pile di teste, mani e piedi.”  Terminata infine la descrizione di cotanta meraviglia, il pio cronista aggiunge che “i vincitori si precipitarono nella chiesa del Santo Sepolcro e qui, abbracciandosi l’un l’altro, piansero di gioia ringraziando Dio misericordioso.” Non senza aver prima bruciato tutti gli ebrei dentro le sinagoghe. Requiescant in pace, amen.  Pensate cosa succederebbe oggigiorno, se un giornalista derogando al politically correct, elogiasse simili comportamenti.

O ancora peggio, se un qualsiasi governo menasse vanto di piccoli e grandi massacri. Certo, si potrà obbiettare che una vera evoluzione implicherebbe l’abolizione di guerre e stragi, più che un loro mascheramento dietro operazioni chirurgiche e bombe intelligenti, ma dopotutto stiamo parlando di miglioramenti.  I miracoli, per il momento, li lasciamo a Raimondo di Aguilers.

Durante la grande epidemia di peste nel ‘300, Marchionne di Coppo Stefani, cronista del tempo, riferisce che “medici non se ne trovavano, perocché moriano come gli altri…”. E quand’anche si fossero trovati, sarebbero serviti a ben poco, visto che, fatta la diagnosi, l’unico loro compito era assicurarsi che il moribondo si pentisse dei propri peccati. Pertanto, anche in questo campo dobbiamo registrare un certo progresso, con buona pace di no-vax e seguaci di terapie alternative.

Nel lontano 1672, gli orangisti olandesi, delusi dall’andamento della guerra contro l’Inghilterra, decidono di linciare il capo del governo Johan de Witt e suo fratello Cornelius.  Non abbastanza soddisfatti, i rivoltosi oltraggiano e squartano i corpi, per divorarne i fegati, dopo opportuno barbecue. Fortuna vuole che, nei secoli, l’introduzione della sfiducia e di altri meccanismi parlamentari abbia contribuito a mitigare l’agone politico, favorendo forme più miti di dissenso.  Compiamo un altro balzo e passiamo al 2 dicembre 1812, giorno in cui Napoleone Bonaparte, reduce dal disastro russo, firma il 29° e ultimo Bollettino della Grande Armée. 

In esso, l’Imperatore informa i francesi sul suo ottimo stato di salute, aggiungendo incidentalmente di aver perso seicentomila uomini. Raro connubio di candore e furfanteria, che oggi nemmeno il regime nord coreano potrebbe permettersi. Questa serie di esempi dimostra come qualche piccolo progresso, dal Neolitico a oggi, sia stato realizzato.  Abbiamo abolito il duello, la schiavitù, l’apartheid e non c’è costituzione, almeno a parole, che non garantisca diritti uguali e inalienabili per tutti. 

Può sembrare poca cosa, ma ricordiamoci che fino a non molto tempo fa, anche l’uguaglianza teorica era propugnata solo dai rivoluzionari più fanatici. Non dobbiamo quindi necessariamente disperare sulla sorte dell’homo sapiens, ma nemmeno inorgoglirci troppo. Rimane molto da fare e tantissimi pericoli all’orizzonte.  C’è un intero ecosistema, troppo a lungo violentato, con cui fare pace, asteroidi da schivare, pandemie da debellare e uguaglianze ipotetiche da realizzare compiutamente.

Ma prima di ogni altra cosa, nell’Era della Comunicazione, c’è un passo assolutamente propedeutico da compiere.  Restituire all’informazione il compito di raccontare i fatti, sganciandoli dalle troppe narrazioni cerchiobottistiche. 

Un vizio antico, se prendiamo a esempio la successione di titoli con cui il Le Moniteur racconta il ritorno al potere del già citato Napoleone.

9 marzo: l’antropofago è uscito dal suo covo

10 marzo: l’orco della Corsica si prepara a sbarcare

11 marzo: la tigre è arrivata a Gap

12 marzo: il mostro ha dormito a Grenoble

13 marzo: il tiranno ha superato Lyon

18 marzo: l’usurpatore è a sessanta leghe dalla capitale

19 marzo: Bonaparte avanza, ma non entrerà mai a Parigi

20 marzo: Napoleone domani sarà sotto i nostri spalti

21 marzo: l’Imperatore è arrivato a Fontainebleau

22 marzo: Sua Maestà Imperiale ha fatto ieri il suo ingresso al Palazzo delle Tuileries, circondato dai fedeli sudditi

Capolavoro di mistificazione e trasformismo che sembra scritto ieri, tanto ci siamo assuefatti.

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