Giorgio Albertazzi: la meraviglia di un istrione

ROMA – Ci lascia Giorgio Albertazzi, meraviglioso istrione da palcoscenico, di idee politiche opposte alle mie ma non per questo meno grande nella sua arte e nella sua recitazione.

Ci lascia un poeta della parola, un interprete capace di infondere un’anima ai massimi capolavori della letteratura e del teatro, un dominatore della scena che anche a tarda età si poneva al centro del palco e attirava tutta l’attenzione su di sé.

Perché la vera forza di Albertazzi, ciò che lo rendeva unico, probabilmente inimitabile, era proprio questo suo carisma, questa sua abilità rara di essere lui l’opera, lui la trama, lui il protagonista assoluto, lui il re, lui il tiranno, luiil solista in grado di duettare finanche con se stesso, senza mai smarrire una lucidità e una concentrazione semplicemente straordinarie. 

La bellezza del suo modo di recitare stava nell’intensità, nella potenza, nella convinzione, nel coraggio e nella fermezza: una magia che trasformava ogni opera in un qualcosa di indimenticabile, in un oceano di libertà, di passione, di struggente disincanto o di illusione destinata a durare nel tempo.

E lottava, lottava con tutta la sua grinta, come se volesse domare anche Shakespeare, anche la Yourcenar, probabilmente la sua stessa bravura, sicuramente il pubblico, il tempo che fuggiva via, l’inesorabile scorrere dei giorni, la fine che si avvicinava e della quale Albertazzi non ha mai avuto paura.

Un concentrato di talento e di accettazione di sé e dei propri limiti, del mondo e della vita, della miseria e della nobiltà, delle vette e del nulla, dello splendore e della pochezza morale, come se l’intera esistenza altro non fosse che un’eterna rappresentazione, una recita di opposti che si attraggono, di amici che si voltano le spalle, di stagioni che si concludono e di nemici che ricompaiono dal nulla: queste sono state le sue caratteristiche.

Non so se Albertazzi ne fosse cosciente, ma credo che vivesse per recitare e recitasse per sentirsi vivo e ho l’impressione che ogni sua interpretazione fosse, prima di tutto, una narrazione autobiografica, come se in ogni personaggio dovesse esserci innanzitutto la sua personalità, al punto che, al termine dello spettacolo, pochi si concentravano sulla complessità della trama e quasi tutti ne ricordavano l’interprete.

Qualunque personaggio, dopo essere stato interpretato da Albertazzi, si modificava per sempre, e ogni interprete successivo doveva fare i conti con il peso di un paragone schiacciante, tanta era la personalità di questo cantore di vite e di morti, di ansie e di attese, di storie e di drammi, di bellezza e di squallore, di immensità e di bassezze.

Non era Albertazzi a recitare la sua parte, era la sua parte che si lasciava addomesticare da lui, consegnandosi docilmente nelle mani di un uomo che la plasmava e ci restituiva personaggi destinati ad avere, da quel momento in poi, il suo volto e la sua voce.

Ora lassù starà già recitando il ruolo di Dio, lui che è stato un dio del teatro e che senz’altro si troverà a suo agio anche in questa nuova parte, sfidando se stesso, la storia, il destino e un’immortalità che, comunque, gli appartiene.

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