Le troppe ingiustizie di un Paese arretrato

Max Fanelli se ne è andato in silenzio: il suo cuore ha cessato di battere e la sua voce metallica, dopo aver gridato invano per anni, si è spenta, stremata da una lunga malattia che purtroppo non concede scampo.

Non era solo: una parte delle istituzioni, a cominciare dalle deputate Brignone e Ricciatti, dal gruppo parlamentare di Possibile e dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, gli sono stati accanto fino alla fine, insieme ai familiari e a quanti si sono presi a cuore la tragedia di un uomo straordinario, civilmente impegnato, da sempre partecipe del dolore altrui, dello strazio e delle sofferenze del mondo e che nemmeno nella malattia e nell’immobilismo forzato ha rinunciato a combattere e a dire la sua per costruire una società più giusta. 

Sarebbe potuto andare in Svizzera a morire, sapeva di essere condannato, ma ha scelto di restare in Italia per trasformare un dramma personale in una testimonianza, in un urlo disperato e degno della massima ammirazione affinché venga istituita al più presto una buona legge per sancire la legalità dell’eutanasia per chi è afflitto da mali incurabili. 

Una battaglia di civiltà, dunque; una battaglia che afferisce a quel principio liberale secondo cui ciascuno deve essere libero di disporre della propria esistenza e anche di porvi fine quando essa non ha più nulla di dignitoso o di accettabile, come nel caso di un uomo condannato a stare sdraiato tutto il giorno senza poter muovere un solo muscolo se non le pupille, con le quali consegnava al puntatore ottico i suoi scritti colmi di indignazione e di amarezza.

Tuttavia, non crediate che Max, benché ridotto in condizioni che non si augurerebbero nemmeno al peggior nemico, avesse rinunciato a custodire il bello della vita; non crediate che fosse animato da sentimenti di rancore o di sdegno; la sua grandezza stava proprio nel voler mettere a disposizione degli altri il poco tempo che gli rimaneva, nobilitando la politica ed esprimendone i valori più elevati, senza arrendersi mai, combattendo come un leone e spendendosi in prima persona, lui che avrebbe avuto tutto il diritto di fermarsi e di lasciarsi commiserare per la “Via Crucis fuori stagione”, come l’aveva definita in un libro, cui era stato sottoposto dal destino.

L’unica promessa che possiamo rivolgergli, certi che da lassù, finalmente libero dalle catene che lo avevano imprigionato negli ultimi anni, Max sarà al nostro fianco, è che d’ora in poi la sua battaglia camminerà sulle nostre gambe, che non ci fermeremo e che anche a livello giornalistico terremo alta l’attenzione su questo tema, continuando a denunciare e a schierarci dalla parte dei tanti, troppi Max Fanelli che ogni giorno sono costretti a lottare, oltre che con il proprio male, anche con l’arretratezza di un Paese codino e ingabbiato da una politica complessivamente priva di qualunque autorevolezza, la quale preferisce dei miserabili accordi di coalizione, cioè di sopravvivenza e perpetuazione di una casta autoreferenziale, alla difesa dei diritti umani e del benessere della comunità che sarebbe, invece, la sua ragione di esistere.

E lo stesso discorso vale per altre due norme essenziali, quali la legalizzazione della cannabis, sia per fini terapeutici sia per togliere un formidabile strumento di arricchimento alle mafie che vi lucrano, e il reato di tortura, impantanato da una maggioranza che al Senato non esiste di fatto più per tentare di non far dissolvere il Nuovo Centrodestra, consegnandosi mani e piedi a Verdini. 

In pratica, stiamo assistendo alla pantomima di un governo che antepone la sopravvivenza del partito di Alfano, che ormai, spiace dirlo, esiste solo in Parlamento e, in alcuni casi, nelle aule dei tribunali, a norme di puro buonsenso che si attendono, esse sì, da decenni e che servirebbero a rendere l’Italia un paese più giusto e più in sintonia con le altre democrazie occidentali anziché con la Turchia di Erdogan. 

Non a caso, Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato in quota PD, si è espresso senza mezzi termini: “Come prevedibile, un Senato inqualificabile e infingardo ha preso una decisione inqualificabile e infingarda: ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nel nostro ordinamento dal 1988. Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando. Non poteva essere che così. A questo esito, hanno alacremente lavorato un ineffabile ministro dell’Interno che tenta di riscattare i propri fallimenti politici e di governo attraverso una successione di blandizie non nei confronti delle forze di polizia, bensì dei suoi segmenti più antidemocratici e arretrati. E, poi, i giureconsulti della domenica (ma dell’ora della pennica, mi raccomando) i garantisti ca pummarola ‘n copp’ e i tutori dei diritti purché di appannaggio dei soli potenti. Per motivare tutto ciò, alcuni senatori hanno argomentato, si fa per dire, sull’attentato di Nizza, collegandolo al rischio – nel caso di approvazione della legge sulla tortura – di “disarmare” polizia e carabinieri davanti alla minaccia jihadista. Che Dio li perdoni. Inutile cercare una logica in tutto ciò. C’è solo sudditanza psicologica e spirito gregario. Sotto il profilo normativo, tutto ciò significa una cosa sola: il delitto di tortura entrerà a far parte del nostro ordinamento, a voler essere ottimisti, tra due – tre – trent’anni”.

Un Paese ingiusto, incattivito, fragile, ostaggio di una diffusa miseria morale e culturale, in cui i cambiamenti sono sempre gattopardeschi e la buona politica latita, spiace dirlo, lasciando spazio al conformismo, ai giochi di palazzo, alle tattiche dilatorie e a un’infinita serie di accordi da quattro soldi il cui unico scopo è quello di protrarre il più a lungo possibile una legislatura che ormai ha perso la propria spinta propulsiva e si trascina stancamente in una snervante guerra di trincea fra una maggioranza artificiale e un frastagliato insieme di opposizioni, incapaci di trovare una sintesi, anche perché oggettivamente perseguono finalità in contrasto, e dunque di costruire un’alternativa credibile. 

Un Paese a rischio di dissoluzione, nel quale è franato tutto, compresi la dignità, il buonsenso e la capacità di prendersi cura degli ultimi e dei più deboli. Questa è l’Italia del 2016 e c’è poco da essere ottimisti per il futuro.

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