Pizzarotti, ovvero: perché i 5 Stelle hanno stancato anche se stessi

L’addio di Federico Pizzarotti al M5S, ormai nell’aria da tempo, assume un’importanza assai superiore rispetto a quella che noi osservatori, imbolsiti dalla stanca ritualità della politica italiana che si trascina e riproduce se stessa da tempo immemore, gli attribuiamo.

Perché Pizzarotti, nella geografia del Movimento, non è mai stato e mai sarà un personaggio qualsiasi. Divenuto sindaco nel 2012, ossia quando a credere in questa bizzarra compagine erano ancora relativamente in pochi e l’allora presidente Napolitano sosteneva, con irridente superficialità, di non aver sentito nessun “boom” nemmeno in seguito al successo di Parma, Pizzarotti è stato il primo sindaco grillino di una città importante, colui che ha dato all’Italia l’impressione che questo bislacco esperimento, nato dalle intuizioni di un comico e di un pubblicitario di talento, avesse in sé le risorse per tentare davvero l’assalto al cielo.

Venuto fuori dal nulla, costretto a confrontarsi con un avversario, tal Bernazzoli, la cui miopia politica fu pari solo all’arroganza, quando asserì, prima del ballottaggio, di dover giocare la finale di Champions League contro una squadra di Serie B, questo giovane informatico si affermò con circa il 60 per cento in una città letteralmente depredata dalle amministrazioni precedenti, al punto che si parlava di fallimento di Parma e di depressione collettiva dei suoi abitanti, passati in pochi anni dai fasti della Parmalat leader mondiale del settore e del Parma di Buffon, Thuram e Cannavaro a una Parmalat in ginocchio e a una squadra di calcio che è dovuta ripartire dai dilettanti, non avendo più un centesimo in cassa.

Ebbene, Pizzarotti, con tutti i suoi difetti, una giunta formata in un mese e mezzo, con i vertici del Movimento costantemente contro e alcuni noti esponenti politici cittadini, sia di maggioranza che d’opposizione, in contrasto viscerale con le sue idee e con la sua azione politica, Pizzarotti è riuscito quanto meno a ridurre il debito e a restituire un minimo di dignità e di fiducia in se stessa a una città che ne aveva più che mai bisogno. Senza contare le battaglie portate avanti nel Movimento: dall’Open Day del 7 dicembre 2014, pochi mesi dopo il tracollo delle Europee, quando insieme a una schiera di dissidenti, poi quasi tutti fuoriusciti, si rese conto ed ebbe il coraggio di denunciare, pubblicamente e senza infingimenti, la deriva di una formazione che stava imboccando la strada sbagliata, alla sacrosanta richiesta di sporcarsi le mani nel senso donmilaniano del termine, in quanto davvero non ha alcun senso “avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca” e ci si arrocca su un Aventino inconcludente, in nome di una presunta purezza tutta da dimostrare.

Su di lui scese il gelo: i vertici lo snobbarono, molti parlamentari presero a ignorarlo, alcuni di essi, che pure erano a Parma quel giorno di due anni fa, hanno pensato bene di saltare sul carro del presunto vincitore, senza rendersi conto di star perdendo se stessi e la propria dignità, fino allo scorso 13 maggio, quando, approfittando di un avviso di garanzia giunto a Pizzarotti in seguito alla denuncia del senatore piddino Pagliari per alcune nomine al Teatro Regio di Parma che, a suo dire, avrebbero configurato un abuso d’ufficio, il sindaco si è visto coinvolto in un’indagine recentemente archiviata, non sussistendo alcun motivo per portarla avanti. Ebbene, quelle volpi che siedono ai piani alti del Movimento, anziché schierarsi in difesa di un proprio esponente e garantirgli sostegno e stima, hanno pensato bene di sospenderlo, additarlo al pubblico ludibrio e, di fatto, scaricarlo, salvo poi ritrovarsi, pochi mesi dopo, a dover fare i conti con le grane ben più insidiose legate all’“affaire Muraro” e alle drammatiche vicende della giunta capitolina. E pensare che, proprio in quei giorni, pur essendo indagato e messo all’angolo, Pizzarotti aveva approfittato dello spazio concessogli da alcuni giornalisti non uniformati al paradigma dominante del “grillismo male assoluto” per mettere in guardia Virginia Raggi, non ancora eletta sindaco di Roma ma data da tutti i sondaggi come sicura vincitrice, sulla necessità di circondarsi di persone fidate e di collaboratori di spessore, onde evitare il disastro cui sta invece andando incontro.

Un uomo isolato, in difficoltà e costretto ad amministrare una città ridotta al lumicino che, nonostante tutto, tese la mano ai colleghi presenti e futuri, tornando a ribadire la necessità di un incontro nazionale tra i sindaci del Movimento, al fine di definire una strategia comune per affrontare le insidie e le difficoltà di una stagione tutt’altro che semplice per gli amministratori locali, fra bilanci in rosso, taglio dei finanziamenti statali e disperazione sociale crescente. 

Naturalmente, anche questa proposta, solo perché proveniente da un ribelle, è stata ignorata a lungo, fino a quando persino le aquile che governano quella compagine non si sono rese conto della sua utilità e non hanno organizzato un incontro tra i primi cittadini del Movimento, ovviamente escludendolo e trattandolo con un corpo estraneo, al punto che quasi nessun parlamentare, eccetto qualche dissidente con la mano da tempo sulla maniglia della porta, osa più nominare la città di Parma e quest’esperienza innovativa, nata fra mille risolini di scherno e rivelatasi invece “una rivoluzione normale”, come si legge nel titolo del libro che Pizzarotti ha da poco dato alle stampe, destinata a cambiare il panorama politico del nostro Paese.

Ciò che non hanno capito i Di Maio, i Di Battista, i Grillo e i Casaleggio, le Taverna e le Lombardi, i Bugani, i Piazza e tutti gli altri detrattori interni di Pizzarotti, ciò che non hanno capito, infatti, è che il suo addio non sarà l’isolata resa di un illuso: sarà probabilmente una slavina. Non subito, intendiamoci: molti parlamentari ed amministratori locali aspetteranno giustamente l’esito del referendum ma poi il quadro politico e istituzionale italiano è destinato a mutare radicalmente e la necessità di dar vita a una sinistra unita, coraggiosa, combattiva e in grado di far proprie le istanze movimentiste e civiche che la parte migliore del M5S incarna da sempre, purtroppo inascoltata da un contesto che ormai ha fatto il suo tempo, questa necessità si imporrà e si concretizzerà, comunque vada a finire la consultazione del prossimo 4 dicembre.

Se dovesse vincere il NO sarà più facile, se dovesse, Dio non voglia, prevalere il SÌ ci vorrà un po’ più di tempo, ma ormai è chiaro a tutti che il PD e i 5 Stelle per come li abbiamo conosciuti finora non esisteranno più. Il PD, difatti, è destinato a proseguire lungo la deriva avviata dalle larghe intese napolitaniane e trasformata da Renzi in un’entità strutturale che, personalmente, ho ribattezzato Forza Italicum, con Verdini, Alfano, Zanetti e altri residuati bellici del berlusconismo al seguito pronti a innervarla e a renderla permanente, espellendo o comunque facendo allontanare disgustata la sinistra; i 5 Stelle, dal canto loro, non avendo mai risolto la dicotomia politologica fra gruppo di pressione e partito politico ed essendo un ibrido che non è né carne né pesce, si troveranno a dover fare i conti fra due anime inconciliabili, la cui linea di frattura non si pone tanto sull’antica e sempre valida contrapposizione fra destra e sinistra quanto, più che mai, sulla distinzione netta fra coloro che possiedono un minimo di cultura di governo e vogliono provare davvero a rendere migliore questo Paese e coloro che, al contrario, si accontentano dell’urlo, della denuncia talvolta anche sguaiata, della sparata sui social network, dell’esagerazione costante ma utilissima per andare in tv e affermarsi nei salotti televisivi; insomma, fra quanti amano la politica e ne hanno compreso le regole e il senso sociale e quanti, in realtà, la detestano o, peggio ancora, ne hanno paura.

È bene dire, a tal proposito, che per una volta la sinistra, al netto dei suoi innumerevoli limiti e ritardi, sembra aver compiuto la scelta giusta, ponendosi a metà strada fra l’ala pizzarottiana in fuga dai 5 Stelle e l’ala bersaniana del PD, in bilico fra il desiderio, comprensibile ma probabilmente irrealizzabile, di riconquistare il partito e la scelta razionale di dar vita a una sinistra ulivista che comprenda, ovviamente, la piccola ma combattiva Sinistra Italiana e il movimentismo costruttivo dei Civati e dei Pizzarotti.

Del resto, proprio Bersani lo disse in maniera esplicita: la sinistra che ho in mente si compone di riformisti, socialisti e movimenti, con un esplicito riferimento alla primavera arancione del 2011 che portò alla conquista di Milano dopo vent’anni di egemonia culturale della destra e alla vittoria referendaria su argomenti essenziali quali il nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. Poi è venuta la triste stagione montiana, lo shock del febbraio 2013, la barbarie dei centouno, anzi dei centoventi, che affondarono la candidatura di Prodi al Quirinale per perpetuare le larghe intese e far fuori Bersani e il suo gruppo dirigente, il “sacrificio umano” di Enrico Letta, la grande illusione renziana e, infine, il suo declino, sancito ufficialmente dall’esito catastrofico delle ultime Amministrative.

A proposito, sapete in quale occasione Bersani pronunciò quella frase? Era il 1° luglio 2015 e, presso la libreria Arion in piazza Montecitorio, si presentava il gustoso saggio di Pio Cerocchi intitolato “Il presidente”, con sotto una bella foto di Mattarella. Dubito che al Colle non ne siano stati informati.

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