Cartoline positive dal mondo

È fin troppo facile, in una stagione drammatica come quella che stiamo attraversando, lasciarsi andare al pessimismo cupo, sparare a zero contro tutto e tutti e auto-commiserarsi per la propria condizione di infelicità e per le tragedie di un mondo che sembra oggettivamente correre ad ampie falcate verso l’autodistruzione.

Grazie a Dio, però, non c’è solo questo e persino in una fase storica così triste e preoccupante, bisogna ammettere che ci sono personaggi e storie che ti riconciliano con la vita e con i suoi aspetti migliori. 

Pensiamo, ad esempio, alla compianta Barbara Hale, scomparsa nei giorni scorsi, a Los Angeles, alla veneranda età di 94 anni. È stata una grande attrice, certo, ha interpretato ruoli che hanno segnato la storia del cinema, certo; tuttavia, noi la conoscevamo soprattutto per la parte di Della Street, la fedele segretaria di Perry Mason, in una delle serie televisive più amate e seguite di tutti i tempi. 

Intorno alla figura della Hale, vien voglia di costruire un ragionamento sul fatto, tutt’altro che secondario, che mentre la fiction italiana di matrice generalista tende ad esaltare le figure di poliziotti, carabinieri, preti detective, suore fuori dall’ordinario e simili, nell’immaginario collettivo americano il ruolo dell’uomo di legge riveste un’importanza assai maggiore che da noi. Il tutto è dovuto, a nostro parere, al particolare ordinamento giudiziario di quel Paese, al fatto che, da buoni anglosassoni, siano dei cultori del sistema di “common law” e all’impianto accusatorio del processo americano. Il nostro sistema, imperniato sull’impianto requisitorio e sul fatto che sia l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell’imputato vede, infatti, nell’avvocato unicamente il difensore del proprio assistito; il modello americano, in base al quale è l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza, vede invece nell’avvocato non solo il difensore del proprio assistito ma anche un investigatore privato, da qui lo straordinario successo di una serie come Perry Mason. 

E così, mentre ci apprestavamo a celebrare il centesimo anniversario della nascita di Raymond Burr, scomparso nel ’93 all’età di 76 anni, siamo venuti a conoscenza della morte di quella che ormai, per tutti, era la sua segretaria: una figura non meno importante e centrale di lui nella trama di un evento del piccolo schermo che non ha avuto oggettivamente eguali, così come non ha avuto oggettivamente eguali la figura dell’avvocato Atticus Vinch, protagonista de “Il buio oltre la siepe”.

Addio, dunque, ad una donna che ha incarnato nella propria recitazione i valori di onestà, competenza, discrezione, fedeltà, garbo, sobrietà e gentilezza, ossia tutto ciò che manca alla società contemporanea, rendendo perciò ancora più apprezzabili gli ultimi cultori di queste virtù ormai misconosciute. 

Nel dolore per l’addio ad un’attrice di valore, l’aspetto positivo è senz’altro legato, quindi, al fatto che rimarrà comunque l’esempio e la memoria collettiva di una persona perbene, portatrice di un messaggio apprezzabile in un’epoca nella quale sono venuti meno i modelli da seguire. 

L’altra notizia sulla quale ho appuntato la mia attenzione riguarda il tennis: uno sport da sempre considerato aristocratico e, al contrario, divenuto ormai popolarissimo, specialmente per merito dei due fuoriclasse che si sono sfidati ieri agli Open d’Australia: Roger Federer e Rafael Nadal, di nuovo l’uno di fronte all’altro a undici anni di distanza dal loro primo incontro. 

Alla fine ha prevalso Federer, ma non è questo che conta: ciò che conta è la bellezza dell’incontro che hanno disputato, la lealtà con la quale si sono battuti e l’intensità di una sfida che non ha vissuto un solo momento di tensione, se non quella, sacrosanta, dettata dall’agonismo di due rivali che, nell’ultimo decennio, hanno scritto pagine memorabili del mondo della racchetta. 

Rimarrà la grinta dello spagnolo e rimarrà la sublime classe dello svizzero; rimarrà l’attenzione mondiale verso un confronto che resterà negli annali, al pari dell’incontro di pugilato del ’74 tra Foreman e Ali a Kinshasa, trattandosi della massima vetta attualmente raggiungibile da uno sport che è riuscito nel miracolo di conservarsi, almeno in parte, genuino, nella stagione degli sponsor e degli ingaggi milionari, del doping e di altre nefandezze, e rimarrà la totale assenza di polemiche che ha accompagnato l’esito della sfida; rimarrà, insomma, la meraviglia di tre ore e mezzo di serenità, al cospetto di uno spettacolo indimenticabile che ha visto trionfare il miglior giocatore dell’ultimo decennio e, forse, di sempre. 

Ad accomunare due figure per il resto impossibili da mettere a confronto come la Hale e Federer sono, pertanto, proprio la lealtà, l’abnegazione e l’impegno che hanno sempre profuso nel rispettivo ambito, conquistando vette notevoli e mantenendosi costantemente umili, a differenza di coloro che si esaltano e si montano la testa alla prima affermazione, pur valendo magari infinitamente meno di loro. 

Due belle cartoline dal mondo, tra passato e futuro, fra memoria e prospettive per un domani tutto da immaginare; due punti di riferimento e un’avventura umana che riesce ancora, incredibilmente, a commuoverci e a sorprenderci. Speriamo che non rimangano un caso isolato.

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