Bologna, una strage dimenticata

ROMA – Bologna, trentacinque anni fa. E l’orologio è fermo alle 10,25 e la vita scorre e i treni partono e arrivano e tutto sembra normale ma non lo è, non più, da quel 2 agosto 1980, un sabato di inizio vacanze, quando una bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, causando ottantacinque morti e oltre duecento feriti.

Nulla è normale a Bologna, nulla è normale in Italia: un paese bellissimo e drammatico, in cui le verità sono sempre fragili, nascoste, divise fra fazioni politiche, sottoposte a processi interminabili e prove occultate, documenti secretati, archivi di Stato che dovrebbero aprirsi e invece rimangono sigillati o quando pure si aprono, non consentono di giungere ai vertici della piramide, ai mandanti, ai veri responsabili delle stragi, a coloro che le hanno ordinate per scopi ben precisi e tuttora ignoti, anche se facilmente comprensibili.

Nulla è normale in una Nazione in cui ancora attendono verità e giustizia i familiari delle vittime delle varie tragedie che hanno caratterizzato la cosiddetta “Strategia della tensione”: il massimo tradimento possibile da parte di uno Stato che avrebbe dovuto difendere i propri cittadini e invece li uccideva, costringendoli a vivere nel terrore, nella disperazione e nella rabbia permanente, non sapendo se sarebbero usciti vivi da una banca o se sarebbero scesi incolumi da un treno, fino all’epilogo mafioso del biennio ’92-’93 in cui l’esplosivo servì a costruire e consolidare nuovi equilibri politici dopo che i vecchi schemi erano saltati a causa del luridume scoperchiato da Tangentopoli e dalla conseguente implosione dei partiti cardine della Prima repubblica.

Mafia, P2, servizi segreti deviati (che di deviato non avevano proprio nulla, essendo perfettamente integrati all’interno del sistema), terroristi rossi e, soprattutto, neri, politici corrotti, ufficiali infedeli, vertici delle forze armate affiliati alla loggia di Gelli, giornalisti prezzolati, silenzi, omissioni, omertà e depistaggi: questo è il quadro devastante nel quale è maturata la “strage fascista” di Bologna, una strage alla quale frange cospicue della destra peggiore vorrebbero sottrarre l’aggettivo per nasconderne la matrice, una strage che brucia ancora nelle coscienze collettive e per questo se ne parla poco.

A tal proposito, è bene chiarire che a noi non importa solo ricordare e commemorare le vittime o star qui ad esprimere una ovvia solidarietà nei confronti dei loro familiari straziati dal dolore: a noi interessa molto di più sostenere la battaglia di Paolo Bolognesi (presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime) per giungere all’approvazione di una seria legge sul depistaggio, alla desecretazione di tutti i documenti utili a far luce su quella e altre barbarie e al pagamento degli indennizzi dovuti ai parenti delle persone rimaste uccise nella mattanza.

Ci interessa riannodare i fili della memoria e pensare a come sarebbe stata la vita della piccola Angela Fresu, morta a nemmeno tre anni, insieme ad altri bambini, italiani e non, che oggi probabilmente sarebbero padri di famiglia. Ci interessa conoscere e capire, scavare ed indagare, guardare negli occhi i presunti colpevoli e domandarci come possano vivere con un simile rimorso sulla coscienza ma, soprattutto, ci interessa continuare a interrogarci su chi ha armato le loro e tante altre mani omicide, in quel vortice di sangue e distruzione che scandì gli Anni di Piombo e si protrasse fino alle carneficine di Capaci e via D’Amelio, fino agli ordigni in via dei Georgofili a Firenze e in via Palestro a Milano, fino alle collusioni e alle connivenze con gente che si è seduta per decenni sui banchi del Parlamento e, forse, talvolta, addirittura del governo, occultando prove e provocando una voragine assai più dolorosa di quella causata dalle bombe che hanno sfregiato le nostre città e trasformato la nostra memoria in un grande cimitero collettivo.

Ci interessa ricordare per non darla vinta a chi vorrebbe che il 2 agosto si parlasse d’altro, per indurre in particolare le giovani generazioni a riflettere non tanto sull’attentato in sé quanto su ciò che ha rappresentato negli anni quell’esplosione, ben documentata dalle lancette dell’orologio ferme all’ora della strage, affinché quell’assenza di movimento produca un moto di riflessione in tutti coloro che avranno l’occasione di passarvi davanti.

Perché il vero pericolo, in questa faticosa democrazia dei detti e non detti, delle verità parziali e delle menzogne dilaganti, non sono nemmeno gli ordigni quanto gli sguardi distratti, l’idea che si possa sempre e comunque passare oltre, che si debba andare avanti come se niente fosse successo, che il capitolo tragico della stazione di Bologna sia al massimo una pagina in più da studiare sui libri di storia. Non è così: non ha alcun senso studiare se non si comprende il valore di ciò che si sta analizzando, se non si capisce che quegli ottantacinque morti comuni sono solo i tasselli di una strategia più ampia e complessa di tutti noi, di un disegno malvagio che grava probabilmente tuttora sulle nostre teste, di una crudeltà studiata a tavolino per evitare che si modificassero determinati equilibri sui quali si reggeva un potere poi rivelatosi marcio e, tuttavia, capace di difendersi con altro sangue e altra disperazione.

Non ha senso andare a Bologna a rendere omaggio alle vittime se non ci si rende conto di cosa esse significhino nella storia del nostro Paese. Non ha senso ricordare se una strage di quelle dimensioni diviene, al massimo, una commemorazione buona per dire quattro frasi di circostanza e poi voltare pagina, come se si trattasse per l’appunto di una lezioncina da imparare a memoria.

Non ha senso e sarebbe indegno, anzi costituirebbe un oltraggio alla memoria e un affronto nei confronti di chi ha perso la vita e di chi potrebbe perderla in futuro a causa di un sistema che vede al proprio interno ancora troppi indizi non svelati e troppi punti oscuri sui quali sarebbe opportuno fare luce.

In fondo, se ci pensate, anche la stazione di Bologna, a trentacinque anni di distanza, è una periferia da illuminare a giorno, uno dei tanti luoghi della sofferenza di cui il giornalismo non si occupa e la politica meno che mai, un posto in cui recarsi, almeno con la memoria e col pensiero, tutti i giorni dell’anno, soffermandosi sulle parole di quel padre che disse alla figlia: “Mettet a sedar che adess la guera ta l’è vesta anca te” (“Mettiti a sedere che adesso la guerra l’hai vista anche tu”). Una guerra infinita, che non può finire e non finirà fino a quando non conosceremo i nomi, volti e le motivazioni dei veri responsabili di un’oscenità che chiede ancora, purtroppo invano, giustizia.

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