Calcio. Corea: la prima sconfitta dei “baby boomers”

ROMA – La Corea, cinquant’anni fa. È trascorso esattamente mezzo secolo da quel 19 luglio del ’66 in cui un caporale dell’esercito nordcoreano, un certo Pak Doo-Ik, divenuto celebre grazie a una sola partita, mise a segno sul finire del primo tempo il gol che avrebbe estromesso gli Azzurri di Mondino Fabbri dai Mondiali inglesi, poi vinti dai sudditi di Sua Maestà anche grazie a uno dei più celebri gol fantasma della storia del calcio. 

Erano gli anni del boom economico, dell’aumento vertiginoso dei salari, del raggiunto benessere e delle grandi passioni musicali, con i Beatles e i Rolling Stones a contendersi i cuori di milioni di ragazzi in ogni angolo del pianeta. 

Erano gli anni della carneficina vietnamita e delle grandi rivolte studentesche in America, gli anni delle marce per i diritti degli afroamericani del reverendo King, gli anni di Muhammad Ali, gli anni del terzomondismo intelligente e delle lotte per l’emancipazione da ogni dittatura di Ernesto Guevara detto il “Che” e, infine, erano gli anni in cui molti Stati africani, da poco affrancatisi dai colonizzatori europei, stavano tentando di trovare la propria strada per una convivenza civile accettabile, prima di piombare, pressoché in blocco, nella barbarie di nuovi sanguinosi regimi. 
Calcisticamente parlando, invece, erano gli anni della Grande Inter di Herrera, arcinemico di Fabbri, il quale, per eccesso di orgoglio e con una punta di colpevole imprudenza, pur di non riconoscere la bravura del rivale e dei suoi ragazzi, preferì seguire le sue idee originarie, portando in Inghilterra una squadra di tutto rispetto ma non all’altezza di quell’armata nerazzurra che in pochi anni si era imposta in Italia e nel mondo, esprimendo una miscela di classe operaia e talento cristallino assolutamente irresistibili.

Fabbri, poi, in quell’ultima sfida del girone di qualificazione, commise un altro gravissimo errore: puntare comunque su Bulgarelli nonostante fosse infortunato, costringendo l’Italia a giocare praticamente in dieci contro un avversario che persino un uomo solitamente cauto e di estrema lealtà e modestia come Valcareggi (vice di Fabbri in quella spedizione) aveva clamorosamente sottovalutato, arrivando a paragonarli a “Ridolini”, ossia a un attore comico statunitense dei tempi del cinema muto.

Supponenza, presunzione, scarsa considerazione dell’avversario, indolenza, incapacità di reagire allo svantaggio e mancanza d’anima e di spirito di gruppo trasformarono la partita dell’“Ayresome Park” di Middlesbrough, che avrebbe dovuto essere per noi poco più che una formalità o una passerella, in un’autentica Caporetto, al punto che dopo quella sconfitta i vertici federali decisero di chiudere le frontiere ai giocatori stranieri, al fine di ricostruire una Nazionale degna di questo nome. Una scelta oggi impensabile ma che all’epoca diede comunque i suoi frutti, se si pensa che appena due anni dopo, guidati proprio da Valcareggi, vincemmo gli Europei casalinghi e quattro anni dopo, ai Mondiali messicani, arrivammo in finale, dove fummo sconfitti per 4 a 1 da un Brasile marziano, con un Pelé al massimo della forma e all’apice della carriera.

Quella catastrofe sportiva non gli è stata mai perdonata, povero Mondino! Per anni, dagli spalti, subì il grido di scherno: “Corea, Corea!”, come se quella sconfitta costituisse uno stigma, un marchio d’infamia, una colpa che nessuna affermazione successiva avrebbe mai potuto cancellare o, quanto meno, ricondurre nell’alveo di una semplice disfatta calcistica. Perché non lo fu, a pensarci bene: fu il primo impatto dei “baby boomers” con le amarezze della vita, il loro primo scontro con la realtà, un punto di non ritorno che pose fine al ventennio magico che aveva caratterizzato l’immediato dopoguerra e gli anni della ricostruzione e dell’arrivo della modernità e della speranza.
Siamo stati felici, almeno fino a quel dannato mercoledì di piena estate, quando ci accorgemmo che molti sogni erano destinati a svanire, che quel senso di invincibilità era solo un’illusione e che il mito di una generazione che avrebbe raggiunto livelli di affermazione personale e collettiva impensabili per le precedenti era sì vero ma assai meno dorato di quanto non pensassimo.
Un bagno di umiltà che dura da allora, mentre le prime pulsioni sessantottine già cominciavano a manifestarsi e contestazioni assai più dure di quelle sportive si affacciavano sul proscenio di un Paese stretto nella morse fra il suo naturale istinto conservatore e la volontà di innovazione e cambiamento delle giovani generazioni.

E oggi che quei ragazzi hanno i capelli bianchi e molta vita alle spalle, si immergono nei ricordi e rievocano le sensazioni di quel giorno di tanti anni fa, in cui persero una partita, l’innocenza e una parte del candore che li aveva caratterizzati fino a quel momento.

No, non fu una semplice partita di calcio: fu uno spartiacque fra un prima e un dopo e spesso, anche noi che all’epoca non c’eravamo, e dunque non possiamo avere nostalgia di quei tempi, proviamo un sottile rimpianto per non vissuto un’epoca senz’altro più ingenua e spensierata ma proprio per questo, di sicuro, più serena.

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