La Roma: core de ‘sta città

E son novanta, cara Roma, “core” e anima di una città che, da alcuni anni, sta attraversando uno dei momenti peggiori della sua storia millenaria.  Novant’anni di Roma calcistica, novant’anni di campioni e di emozioni, novant’anni di un tifo caldo, passionale, unico, innamorato di un sogno e di un’idea più che di una prospettiva concreta, in quanto le vittorie della squadra giallorossa sono sempre state sporadiche e quasi mai hanno varcato i confini nazionali.  

Eppure, che fosse la Rometta i cui tifosi facevano la questua al Sistina per non vendere De Sisti alla Fiorentina o che fosse la Roma di Viola e di Sensi, cioè l’unica in grado di scalare quella vetta spesso insormontabile chiamata scudetto, qualunque Roma fosse, il suo popolo era lì, a sostenerla e ad abbracciarla, a riconoscersi in lei e a sentirsi parte di una vicenda che va ben al di là del singolo aspetto sportivo. 

La Roma, infatti, anche per chi non ne è tifoso, costituisce un’educazione sentimentale alla vita, un inno al dolore e alla sofferenza, una sorta di matrimonio in cui non esiste interesse né, spesso, ritorno ma unicamente un amore folle puro, incondizionato. 

La Roma è Totti, l’ultima grande bandiera del calcio italiano, il quale ha rifiutato contratti faraonici e prospettive di gloria, personale e collettiva, pur di regalare a se stesso adulto il sogno di quand’era bambino. La Roma contiene in sé un tasso di infantilismo e di poesia, di meraviglia e di spirito di sacrificio, un masochismo ai limiti della perversione e il senso di una sfida da rivolgere innanzitutto alla propria anima, prim’ancora che al resto del mondo e a quelle corazzate del Nord il più delle volte inarrivabili. 

La Roma è il barone Liedholm e il taraccagnotto Bruno Conti, è Giannini e De Rossi, è la sfortuna e il dramma di Giuliano Taccola e l’infinito cuore del brasiliano Aldair; la Roma è una curva dai tratti popolareschi, proletari, testaccini, umorale come poche altre, capace di ferocia e attaccamento totale, di eccessi d’ogni sorta, di un seguito quasi morboso e di una magia che ha pochi eguali in Italia e nel mondo. 

La Roma è una buona misura della fragilità umana, del nostro senso di sconfitta, di inadeguatezza e di paura; è un inno ad andare al di là dei propri limiti e, spesso, un’amara constatazione del fatto che, alla fine, vincono loro. 

La Roma compie novant’anni e merita stima e rispetto, specie alla luce di una stagione che si preannuncia comunque importante, specie se si pensa che se n’è finalmente andato il diversamente simpatico Spalletti ed è arrivato in panchina uno dei figli prediletti della squadra e della città, Eusebio Di Francesco, con Totti che ha annunciato di essere pronto ad intraprendere la carriera dirigenziale e una campagna acquisti intelligente e mirata, senza colpi ad effetto ma senza neanche risparmiarsi o rinunciare a rinforzare la rosa.

Per questo io, juventino di cuore, abituato a vincere e a stare in vetta, a sognare la Champions e a dominare in lungo e in largo in Patria, provo da sempre simpatia verso questa realtà che affascina gran parte della mia famiglia e che, in fondo, suscita anche in me un magnifico sentimento di tenerezza, essendo l’emblema di una passione genuina per un quasi nulla oltre i confini del tempo, ossia per un praticamente tutto che è forse l’ultima ideologia totalizzante, dunque pervicacemente, convintamente anacronistica, che ci è rimasta.

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