Rio: le Olimpiadi di Jorge Amado

Quando arrivano le Olimpiadi, tutto si ammanta di magia, di splendore, di leggerezza. Se i Giochi si svolgono in Brasile, poi, tutto diventa Samba, Capoeira, Bossa Nova, follia e meraviglia a volontà, al pari del litorale di Ipanema, della distesa sabbiosa di Copacabana e di tutto ciò che rende Rio de Janeiro una delle città più affascinanti e contraddittorie al mondo. 

Perché il Brasile si riflette nella povertà della sua gente e nella ricchezza delle sue risorse naturali, nella sua disperazione e nella sua gioia di vivere, nelle sue gravi e devastanti disuguaglianze e nelle occasioni di riscatto che solo lo sport, che non a caso da quelle parti ha assunto il ruolo di una sorta di religione laica, è in grado di offrire.

Perché nel calcio, come nel nuoto, nella scherma, nell’atletica, nel beach volley e in tutte le altre discipline olimpiche, non conta da dove vieni o di chi sei figlio: anche in quest’epoca ultra-tecnologica, sconvolta dai casi di doping e segnata dagli interessi miliardari degli sponsor che hanno avvelenato il concetto stesso di sport, anche di questi tempi, alla fine, il talento emerge, la classe si fa strada, la bravura prende a pugni ogni ingiustizia e non è raro vedere i figli delle favelas sul gradino più alto del podio.

E quando sono lassù, circondati dalle telecamere, osannati dal mondo intero, coccolati dagli emissari di sponsor che già pregustano le cascate di denaro che essi potranno portare nelle proprie casse, in quei momenti verrebbe voglia di correre da quei ragazzi e portarli via, ben sapendo che è impossibile, che la purezza e la dolcezza di quei momenti di gloria sono effimere, che la pioggia d’oro che li attende avrà la meglio sulla poesia del nostro animo di ingenui romantici e che, in fin dei conti, la maggior parte di essi si è allenato, ha sudato e affrontato innumerevoli sacrifici anche, per non dire soprattutto, per affrancarsi da una miseria che noi non possiamo nemmeno lontanamente immaginare.

Questo è il Brasile, con i suoi golpe veri e i suoi golpe di velluto, ad esempio quello che pochi mesi fa ha coinvolto la presidente Dilma Rousseff tramite un voto di impeachment; un paese immenso e bellissimo dove, tuttavia, è estremamente difficile vivere e tirare avanti dignitosamente; un universo nel quale si respira ad ogni angolo della strada l’amore per la vita e per la bellezza dei suoi abitanti eppure è impossibile non riflettere su quanto questa vita sia, in molti casi amara, dolente, colma di orrore, di prepotenze e di vessazioni.

Pensi al Brasile e, a quindici anni dalla scomparsa, ti viene in mente uno dei suoi più grandi scrittori: Jorge Amado, lui che questa trentunesima edizione dell’epifania olimpica l’avrebbe attesa e descritta con rara maestria, pur essendo nativo della regione di Bahia, pur essendo un brasiliano figlio dell’agiatezza, pur essendo un autore molto attento alle tematiche sociali o, forse, proprio per questo, in quanto era ben cosciente, Amado, del fatto che nulla è più sociale dello sport, che nessuna attività umana costituisce un osservatorio migliore per comprendere le dinamiche di una società in continua evoluzione e che, tutto sommato, in quell’epica ancestrale capace di rinnovare ogni volta la sua magia risiede l’anima profonda dei suoi stessi personaggi.

Amado che deve molto al quartiere di Ipanema, dove si trasferì ventenne e scoprì gli ideali comunisti; Amado e i suoi graffianti affreschi del Brasile getulista degli anni Trenta, descritto ne “Il paese del Carnevale” e in “Cacao”; l’Amado ormai maturo di “Gabriella, garofano e cannella” e di “Dona Flor e i suoi due mariti”; Amado e una nazione che ha visto svilupparsi nell’arco di quasi un secolo, passando dalle fazendas dell’infanzia al dirompente progresso tecnologico degli anni della vecchiaia. E chissà cosa avrebbe detto, e più che mai scritto, vedendo all’opera campioni come il giamaicano Bolt e lo statunitense Phelps, come l’asso carioca del pallone Gabigol e come i nostri atleti azzurri, in cerca di conferme internazionali delle quali avvertiamo il bisogno in tutti i campi.

Chissà cosa avrebbe scritto di questo Brasile eternamente in bilico tra democrazia e dittatura, stabilità e destabilizzazione, svolte democratiche e svolte autoritarie, emancipazione degli ultimi dallo stato di oppressione in cui versano e loro annientamento! 

Chissà come avrebbe descritto questa trentunesima edizione che prende il via tra poche ore e ci terrà compagnia fino al 21 agosto! 

Chissà cosa avrebbe sussurrato all’amata moglie Zélia Gattai, di cui ricorre il centesimo anniversario della nascita, anche lei scrittrice e soprattutto confidente privilegiata dei suoi segreti e dei suoi sogni!

Come tutto ciò che accade in Brasile, anche quest’Olimpiade non avrà nulla di normale o di già scritto; non mancheranno di sicuro le emozioni e i colpi di scena e il medagliere avrà un ruolo minore rispetto ad altre volte, in quanto tutto si può chiedere all’umanità tranne che i furetti indiavolati di Rio si trasformino in meri ragionieri, contabili senz’anima di un’attività senza passione.

In Brasile, qualunque cosa profumi di sport, di musica, di movimento, di ritmo e di competizione assume le sembianze di una festa senza confini, nella quale tutti si sentono protagonisti e l’inclusione sorge spontanea, facendo passare in secondo piano la miriade di problemi che affligge una realtà disastrata e in preda a una crisi economica che rischia di minarne gli equilibri e le prospettive per il futuro. 

Per sedici giorni il Brasile vivrà in una grande bolla, mediatica e non solo, e qualunque decisione drastica, qualunque analisi cupa, qualunque scenario catastrofico sarà rinviato a dopo, quando il carnevale sarà finito, le luci si saranno spente e gli atleti, onusti di gloria e di felicità, saranno tornati in patria a mostrare i loro metalli preziosi ad altre folle in delirio e a un mondo politico che, ovunque, proverà a mettere il cappello sui loro successi. 

E al Brasile di Amado e di Pelé, di Vinícius de Moraes e di Ayrton Senna, a questa terra favolistica e reale, in cui le due componenti si confondono e il più delle volte finiscono col sovrapporsi non resterà che il ricordo di questo caleidoscopio di poesia e di grandezza umana che, in fondo, è giusto che almeno una volta ogni quattro anni celebri il proprio congresso, prima che la normalità torni a impadronirsi dei nostri giorni e del nostro tempo senza particolari illusioni. 

A pensarci bene, vale lo stesso anche per l’Italia e per i suoi alfieri impegnati nella lontana terra carioca: non saranno “notti magiche”, come cantava il fresco settantenne Bennato insieme alla Nannini, in occasione dei Mondiali casalinghi del ’90, e non sarà nemmeno “un’estate italiana”; tuttavia, perché non provarci, non sperare, non tornare per un attimo bambini anche noi, prima di rituffarci nella nostra condizione di adulti senz’anima e senza più negli occhi i colori della vita? In fondo, cosa abbiamo da perdere?

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