Immigrazione. Chiedere asilo tante volte e non perdere la propria identità

Il barbiere di Ségou 

ROMA – Figaro ha tanti anni di più dei suoi diciassette dichiarati dai medici dell’Ospedale che lo hanno visitato. Viene dal Mali, nato in un villaggio nei pressi di Ségou. E’ cittadino del mondo, prigioniero di un sistema che non lo spaventa più. “Sono cicli”, giri di giostra, “Solo Dio sa se un giorno mi fermerò, se un giorno tutto si fermerà”.

Ha diciassette anni perché tutto si è fermato lì. Il tempo allora è diventato astorico, non lineare, ritualistico. Lui, che viene da un’importante famiglia di curandero, che ha una visione del mondo tradizionale, che porta avanti il suo credo islamico misto all’animismo dei suoi cari, è stato vittima della più grande religione del ventunesimo secolo, la burocrazia occidentale. Un sortilegio che gli ha fatto rivivere le stesse cose in tanti paesi differenti. Fermato al confine e messo in stand by, di centro in centro, richiedente asilo ovunque, dopo il diniego ha sempre fatto i bagagli e ha riprovato a sfidare la sorte. Malta, Grecia, Ucraina, Russia, Francia, Spagna e ora Italia. Un sacco con qualche vestito e con degli scarpini da calcio. Tacchetti rotti, pelle consumata, ma tante partite da ricordare. Sono africani e hanno calpestato gli stadi semiprofessionistici del suo Paese, i campi di terra vicino al magazzino della ditta edile libica per la quale ha lavorato, quelli dei centri di accoglienza di mezza Europa, i parchi, le ville. Due valigette, una piena di erbe, di creme, di strumenti di legno, di ricette. Sono le sue medicine tradizionali. E infine una valigetta più moderna, scrigno dei suoi gioielli: le forbici, i pettini, i rasoi. E’ un barbiere Figaro.

“Quando incontro una persona per strada io so da dove viene, la prima cosa che guardo è che tipo di capelli ha. Se sono forti, grossi. Quale sfumatura di nero hanno. Se sono crespi, ricci. O se sono lisci, delicati. In Europa è semplice, anche se vi tingete, vi camuffate. In Africa è tutta un’altra storia. I capelli sono come gli occhi, naturali. E guardare i capelli di chi hai di fronte per me è il modo più semplice, più evidente per capire che viaggio ha fatto. Io so tutto dei miei fratelli e lo vedo da qui. Dalla parte più alta del loro corpo”. E’ lontano da casa da venti anni e non ha perso la sua identità. Conosce tutto dell’angolo oscuro dell’immigrazione. Non è un parassita. “Io non viaggio per avere da mangiare e dormire, io non continuo la mia avventura per questo. Non mento per avere fortuna. Lo faccio per sopravvivere e per cambiare le cose. A differenza di molti io non ho nulla da perdere, il mio sogno è quello di parlare da solo di fronte a una giuria composta da tanti politici e difendere i diritti di tutte le persone che hanno abbandonato il loro Paese. Che non hanno notizie dei loro genitori, che non hanno una famiglia e che sono sommersi dalle indifferenze altrui. In ogni Paese mi dicono che il razzismo non esiste, io vorrei spiegare a tutti che quello che è diventato la mia vita è forse dovuto a qualcosa di peggiore del razzismo. La voglia di non conoscermi. Chi mi ha incontrato sa che non chiedo soldi, non chiedo favori, che ho una grande dignità e quando li saluto perché mi viene detto che non posso più restare, mi dicono che non è giusto e forse capiscono qualcosa in più su come gira il mondo”. E’ un leader, gli altri ragazzi lo ascoltano, lo amano. Lui sa prendersi le sue responsabilità. Dirige le riunioni e tira le sintesi delle opinioni espresse da tutti. “Si sceglie insieme una cosa e poi quella deve essere. La nostra forza può essere solo l’unione.

Il portare avanti la stessa idea. Se una persona ti dicesse che non è buono andare in un posto, poi te lo dicesse un’altra, poi un’altra, poi un’altra e così in continuazione. Tutti a dirti la stessa identica cosa in momenti diversi, ma con la stessa convinzione e poi ad un tratto te li ritrovi tutti insieme a chiederti spiegazioni, allora forse ti convinceresti che non è buono andare in quel posto.

Ecco così si cambiano le cose. Insieme si decide, da soli ci si espone, insieme ci si ritrova”. Figaro non ama la violenza: “So cosa sono le guerre, cosa è la tortura, non è questo il linguaggio giusto, né il modo rivoluzionario di fare la politica”. Lui la fa con il proprio viaggio: “Non so se mai una popolazione mi darà la possibilità di vivere con loro, se lo farà aiuterò i miei fratelli a seguirmi. Sono pochi i maliani in Italia, Bengalesi ed egiziani sono nel vostro Paese da tanti anni e per loro è più facile. Noi abbiamo iniziato ora a vedere oltre l’Africa, oltre la Francia. Tra venti anni sarà più facile anche per noi. Mi piacerebbe organizzare una comunità di migranti nel vostro Paese. Una comunità aperta, gioiosa, che pratichi la cultura dell’accoglienza e del dialogo tra i popoli. Dobbiamo comportarci bene e sfruttare le poche chance che Dio ci concede”. Ma perché continuare, perché non rientrare? “Perché in Africa si muore, le cose non cambiano. Oggi c’è la guerra in Mali, domani in Costa D’Avorio. C’è corruzione e c’è sfruttamento. Io voglio che la gente ci conosca per quello che siamo. Restando in Africa la gente che vive nei paesi che comandano ci conoscerebbe solo per quello che dicono le televisioni. Voglio che il razzismo non si elimini eliminando le differenze, nel nostro Paese come in Occidente”. Venti anni in giro e non ha ceduto di una virgola, è ancora africano: “Sono Figaro, sono un barbiere di Ségou, non voglio rinnegare la mia cultura, per questo continuo. Ascolto musica del mio Paese, cucino le cose del mio Paese, penso africano, credo nei sentimenti e non nei soldi.

Mi piace conoscervi e farmi conoscere. Sono forte, non mi perdo, non voglio scorciatoie. Avrei potuto fermarmi da qualche parte senza documenti, ma io non voglio vivere così. Io aspetto la risposta alla mia domanda di asilo, se è negativa la rispetto. Rispetto la legge, rispetto la vostra cultura”. Non vuole vivere nell’irregolarità. Allora è risucchiato nella burocrazia. E dall’essere accolto, rifiutato, clandestino, ridiventa invisibile. C’è ma non c’è, è al confine. Di nuovo in attesa di risposta. Gli viene tolta la possibilità di essere parte attiva del Paese ospitante. Si dice che la sua famiglia conosca il segreto per rendersi invisibile. Erbe che mescolate nel giusto modo e ingerite ad una certa ora di un certo giorno -seguendo dei calcoli sulle fasi lunari- avrebbero un effetto magico. Figaro sa però anche rendersi visibile, nonostante tutto. E’ un punto di riferimento per gli operatori del Centro dove sta vivendo, capace di mediare nei momenti di difficoltà, lo è per i veri minori, è la loro chioccia. Prendere il tè con lui è mettere i piedi fuori dall’Italia, abbandonare il ticchettio del proprio orologio e lasciarsi andare al confronto sulle cose del mondo. Figaro è un tuttofare, capace di arredare i nonluoghi con la sua africanità.

E’ maturo e pieno di curiosità, per lui il suo viaggio continua anche all’interno delle Istituzioni totali. “Sono stato in galera in Libia, solo perché stavo progettando di imbarcarmi, perché mi hanno trovato senza documenti. Ho accettato la cosa. Lo ha voluto Dio. Ho conosciuto tante persone, le ho curate, gli ho tagliato i capelli e ho aspettato che qualcosa cambiasse. Ho aspettato il mio momento. La vita è questa, aspettare il momento giusto. La curiosità per il mondo è la voglia di partecipare delle vite delle altre persone e così tra le difficoltà ci si apre. Si condividono le storie. Si danno consigli. Si ricordano le cose belle e in qualche modo si crea un movimento che tiene vivi tutti, nonostante le ingiustizie, nonostante l’essere rinchiusi”.  A Ségou aveva una bottega, con lui lavoravano i suoi cugini. Aveva 16 anni, ma era il capo, capace di rendere felice chiunque si sedesse alla sua poltrona. Ora lavora a domicilio e spiega: “chiunque può rasarsi i capelli da solo, ma che senso ha? Tagliarsi i capelli deve darti forza, ti deve far sentire più sicuro di te, se no avremmo tutti i rasta. Se Dio non ci dà la forza di tenere i rasta allora occorre sedersi, parlare, confrontarsi. Ed io faccio questo, conosco i miei fratelli, mi ci confronto e li accontento”.

La sua vita è un’opera contemporanea:
Atto I, Figaro lascia il suo Paese per tracciare un percorso, per scoprire il mondo. Si fa esempio per tanti migranti. Si arrangia alla ricerca di una strada. Nasconde il suo nome, sprovvisto di passaporto, modifica la sua data di nascita, ma continua a comportarsi come se fosse in Africa. Rispetta chi lo ospita, non risponde alle provocazioni di chi lo respinge. Incontra gente di tanti paesi, gli taglia i capelli, ne condivide le gioie e poi riparte.

Atto II, Figaro ad ottobre affronterà la Commissione territoriale, oramai negli uffici addetti all’immigrazione tutti lo conoscono, sanno che in tanti anni in giro per l’Europa non ha mai fatto casini: “Dirò la verità, questa volta ho diciassette anni – le altre Commissioni erano state affrontate da maggiorenne – l’età che avevo quando ho lasciato la Libia, un anno dopo aver lasciato il mio Paese e aver attraversato il Niger. Se mi chiedessero cosa ho fatto dai 17 anni ad oggi risponderei con onestà, ho chiesto asilo, ma non ho mai avuto fortuna”. La crisi cambia le tendenze migratorie, ma lui oramai è qui, prima di cambiare Paese vuole ascoltare una risposta alla sua richiesta di aiuto. Potrebbe essere la volta buona, il Governo italiano riconosce gli eventi tragici del suo Mali, le insorgenze dei Tuareg, le difficoltà ed i pericoli che potrebbero incontrare questi ragazzi dandogli il foglio di via. Allora, le Nozze di Figaro: “Fermerei la giostra e perché no? Costruirei una famiglia. Resterei me stesso, ringrazierei il vostro Paese, sempre, ma manterrei la mia africanità. Ho tagliato i capelli a Libici, egiziani, Russi, greci, ivoriani, nigeriani, senegalesi, bengalesi, sarei felice di farlo anche agli italiani. Con i miei tempi ascolterei i miei clienti, in cambio parlerei dei miei fratelli e cercherei di far capire agli italiani che condividere delle storie è quel qualcosa in più che chi viene da lontano può darti”.

Che bel vedere, che bel piacere per un barbiere di qualità!

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