Il vento conservatore del sud. Vince di nuovo Obama, ma il sud resta repubblicano

TORONTO – A dispetto del mito del melting pot americano, fenomeno presente nelle città più cosmopolite, ma non certo nella maggior parte del paese, gli Stati Uniti sono una nazione ancora profondamente condizionata dalle appartenenze etniche.

Dall’inizio del XXI secolo, la comunità ispanico-latina, pari al 16% dell’intera popolazione, è divenuta la principale minoranza e si prevede che nel 2050 sia destinata a superare la soglia del 30%. La componente afroamericana costituisce, invece, circa il 13% dei cittadini statunitensi (alla fine del Settecento, in piena era schiavistica, rappresentava un quinto della popolazione) e il suo 57% vive negli stati del sud, dove sono concentrate anche le uniche 106 contee, su oltre 3.000, nelle quali la popolazione nera supera la metà del totale. Mississippi, Louisiana, Georgia, Maryland e Washington D.C. sono gli stati dove gli afroamericani oscillano tra il 30% e il 50% degli abitanti; mentre Carolina del Sud, Alabama, Carolina del Nord, Delaware e Virginia sono quelli in cui la stessa percentuale si aggira tra il 20% e il 25%.

Questa parte degli Stati Uniti è stata il teatro dei maggiori conflitti etnici del continente nord-americano. Nel 1860, poco prima dello scoppio della guerra di secessione, su 31 milioni di abitanti ben 4 milioni di afroamericani (il 90% del totale) vivevano in condizioni di schiavitù e un terzo delle famiglie del sud “possedeva” schiavi. D’altronde, non bisogna andare così indietro nel tempo per rintracciare i segni del profondo razzismo imperante in questa parte del mondo. Fino agli anni Sessanta del Novecento, la discriminazione razziale non si limitava alla teoria della “supremazia bianca” adoperata dai gruppi di estrema destra legati al Ku Klux Klan, ma sorreggeva le fondamenta sociali e politiche di tutto il paese. Era uno dei suoi retroterra culturali più caratteristici e, come ha raccontato Richard Wright in Ragazzo negro, il clima di segregazione era nettamente percepibile ovunque, nelle strade di Jackson, in Mississippi, così come nei ghetti di Chicago, al nord.

Le regioni del sud non sono mai rientrate nella categoria di swing states, ovvero quella degli stati dall’esito incerto, dove si combatte fino all’ultimo giorno di campagna elettorale, e che, spesso, sono risultati determinanti al fine dell’elezione di un presidente democratico o repubblicano. In seguito al Civil Rights Act del 1964, le leggi emanate dal democratico Lyndon Johnson che posero fine allo stato di apartheid vigente nelle scuole e in tutti i luoghi pubblici del sud e che limitarono le disparità in materia di registrazione alle elezioni (al tempo per votare bisognava addirittura pagare una tassa), gli stati meridionali presero una svolta decisamente repubblicana, avverando i timori di quanti avevano segnalato a Johnson – e prima di lui a John Kennedy – che l’approvazione di quello storico provvedimento avrebbe significato la “perdita dell’appoggio del sud” per i democratici.

E così fu. Eccetto pochi casi straordinari, infatti, dalle elezioni presidenziali del 1964, tutti gli stati del sud divennero una delle roccaforti del Grand Old Party; mentre le battaglie contro i tentativi di ridurre il numero dei votanti in questa parte del paese trovano ancora eco nelle cronache dei nostri giorni. Da allora, dati alla mano, l’accesso allo studio ovale per i democratici è avvenuto solo quando due “bianchi” del sud, ovvero il governatore della Georgia Jimmy Carter prima e quello dell’Arkansas Bill Clinton poi, riuscirono a strappare ai repubblicani anche la Florida e alcuni stati meridionali. O quando, nelle presidenziali del 2008, sulla scia di una grande mobilitazione dell’elettorato “nero”, insieme ai delegati della Florida, che però oggi fa storia a sé vista la significativa presenza latina, Barack Obama riuscì a portare via al duo John McCain – Sarah Palin anche la Carolina del Nord e la Virginia.

La storia si è ripetuta solo in parte quest’anno. Con un ridotto margine di 46.000 e 100.000 voti Obama ha mantenuto la Florida e la Virginia, ma ha perso nella Carolina del Nord – stato in cui i democratici avevano anche svolto la convention di settembre – e dove i repubblicani sono riusciti a riprendersi il governatore dopo 20 anni. A eccezione della classe operaia dei distretti industriali del Michigan e dell’Ohio, che hanno ripagato il presidente per il sostegno al settore dell’auto, in tutto il paese una parte consistente dell’elettorato maschile “bianco” lo ha abbandonato. Un altro serio campanello d’allarme per Obama viene dal voto popolare complessivo ricevuto. Al di là dei numeri dei grandi elettori, sui quali si concentra spesso tutta l’attenzione dei media e di analisti frettolosi, in questa tornata elettorale egli ha perso ben 10 milioni di voti, totalizzandone oltre 700.000 in meno di quelli raccolti dal suo sfidante McCain nel 2008. Un segno che dimostra come una fetta consistente delle speranze accese dal suo Yes, we can sia andata perduta a causa delle risposte insufficienti alla disoccupazione e ai drammi sociali scoppiati con la crisi capitalistica (il sostegno delle fasce più deboli) e dall’eccesso di moderatismo (quello dell’elettorato più progressista).

Per tornare al sud, la componente etnica non è di certo l’unico fattore che ha determinato l’esito elettorale. Altro approfondimento meriterebbe la situazione economica, che segnala come quasi tutti gli stati meridionali rientrino tra quelli con il reddito pro capite più basso del paese, a partire dal Mississippi che ne costituisce il fanalino di coda. Tuttavia, questa campagna elettorale si è segnalata per la ripresa di diffuse dichiarazioni razziste verso un presidente che, tra l’altro, nei primi due anni del suo mandato ha parlato di questioni razziali meno di qualsiasi altro democratico eletto nel dopoguerra; trattando il tema con moderazione estrema, se non, come hanno osservato alcuni commentatori, con vera e propria reticenza. Le stucchevoli inchieste diffuse in queste settimane, dalle quali è emerso che una parte consistente della società americana ritiene che Obama – leggi in questo caso “l’uomo nero” – non sia nato negli Stati Uniti (ovvero sia un presidente illegittimo!) o che sia di fede musulmana, palesano l’ultima fobia di una società che dalla guerra civile al maccartismo ha conosciuto diverse epoche di intolleranza e fanatismo. Esse e più in generale il clima instauratosi in seguito al successo del Tea Party smentiscono quanti, quattro anni fa, dichiararono che l’elezione di Obama avrebbe reso gli USA il paese con la maggiore “tolleranza e integrazione” al mondo. Anche da questo punto di vista, l’American dream ha ancora tanta strada da percorrere.

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