La fuga dei ricercatori: “Per l’Italia: un peso da dover mantenere”. L’intervista

BERKELEY (CALIFORNIA) – I giovani  lasciano il paese perchè non hanno fiducia di un sistema corrotto e hanno perso la speranza di un futuro migliore”.

E’ questo quanto emerge da un’inchiesta pubblicata recentemente dal settimanale Time, che ha sondato le condizioni in cui versano le nuove generazioni in Italia. Impossibile dissentire, visto che assistiamo giorno dopo giorno ad un lento e inesorabile impoverimento della scuola pubblica, o meglio di quel poco che resta. Così  accade che anche i più meritevoli studenti decidano di lasciare il paese alla ricerca non solo di un futuro migliore, ma di un avvenire dignitoso che possa dare loro il giusto apprezzamento per l’operato svolto.

Insomma da un secolo a questa parte la storia si ripete, anche se per motivi diversi. Questa volta sono i “cervelli” italiani ad andarsene, perchè  all’estero sono messi nelle condizioni di poter mettere in pratica la loro conoscenza e spesso finiscono per dare contributi rilevanti nel campo della ricerca. Un fenomeno ben descritto nel film di Marco Tullio Giordana, “La meglio gioventù”, in cui durante una scena alquanto emblematica è lo stesso docente a consigliare al suo studente di andarsene via, di fuggire all’estero, perchè le cose in Italia non cambieranno mai.

La storia di Michele Ardolino, che ora si trova nella prestigiosa Università di Berkeley, è una delle tante, ma è altresì la dimostrazione  di come in altri paesi si nutra una stima considerevole nei confronti di promettenti ricercatori, che spesso nel nostro paese – oltre ad essere sottovalutati per le loro capacità – sono destinati a dottorati di ricerca che, proprio per la mancanza di strumenti adeguati, limita la loro crescita professionale.

Anche tu alla ricerca di un futuro migliore?
Direi di sì. Premetto che in Italia avevo perso la speranza di un futuro migliore, ma non è solo questo fattore ad avere inciso profondamente sulle mie scelte. Sono laureato in Biotecnologie e ho preso il dottorato in Scienze Immunologiche alla Sapienza di Roma. Una volta  capito cosa volevo fare “da grande”, cioè ricerca, mi sono reso conto che un’esperienza all’estero sarebbe stata fondamentale per la mia crescita scientifica e professionale. Per quello che ho imparato in questi anni, la scienza, quella con la S maiuscola, non ha confini, frontiere, è internazionale. Ad un certo punto quindi, immergersi in un contesto più ampio è diventata una vera e propria esigenza. Da qui la mia decisione di partire anche con la speranza di trovare un futuro che difficilmente avrei potuto trovare in Italia. Tuttavia, penso che  abbia contato soprattutto la voglia di fare un’esperienza di vita come questa aggiunta alla possibilità di una crescita scientifica, che spero di poter maturare qui in California.

Perchè i ricercatori fuggono…cosa manca alla ricerca italiana?
Innanzi tutto penso che manchi un adeguato sostegno economico, e non penso solo ai salari di dottorandi e ricercatori che sono sicuramente tra i più bassi in Occidente, ma anche ai finanziamenti alla ricerca scientifica ed universitaria che non hanno paragoni con quelli qui in America o nel resto d’Europa.
Inoltre, da quello che ho potuto vedere io, un serio problema del panorama universitario/scientifico italiano è che manca una vera dimensione internazionale. Per fare un esempio pratico nel  laboratorio dove lavoro qui a Berkeley  ci sono ragazzi da tutto il mondo, almeno da 5/6 nazioni. Se guardo gli altri laboratori nel piano dell’Università dove ci troviamo penso di poter coprire un’altra decina di nazioni senza sforzo. A Roma, invece, in tutto il mio vecchio dipartimento, e  parlo di una decina abbondante di laboratori,  ho trovato in 4 anni solo un ragazzo indiano venuto per pochi mesi e un ragazzo tedesco che però aveva seguito la moglie italiana. Sintomo che l’Italia non “attrae” i ricercatori e gli studenti stranieri.

Quindi se le cose stanno così negli Stati Uniti parliamo di un ambiente di crescita inevitabile…
Infatti. Io ora qui sto facendo il post-doc, (periodo dopo il conseguimento del titolo di dottore di ricerca ndr), cioè in teoria dovrei rimanere qui 4-5 anni e dopo dovrei essere pronto a tornare nel mio paese. Questa è più o meno  la prassi. Ma a questo punto c’è una differenza sostanziale tra noi italiani e i ragazzi degli altri paesi: se un ragazzo tedesco o francese,  dopo essere stato alcuni anni qui decide di tornare nel suo paese, ha la possibilità consistente di diventare capo-laboratorio in pochi anni. In pratica se un tedesco decide di tornare in Germania dal punto di vista scientifico non perde poi così tanto e ha la possibilità di continuare a fare ricerca più o meno al livello in cui la faceva qui a Berkeley con una retribuzione paragonabile a quella americana.

E quanto si guadagna negli Stati Uniti?
Al mio livello, attualmente il minimo sindacale è una borsa di studio di 37.000 dollari all’anno. E questo riscontro economico appaga, perchè contribuisce fortemente a far sentire il ricercatore veramente una risorsa, mentre in Italia soprattutto a sentir parlare molti politici mi sono sentito più volte un vero e proprio peso da dover mantenere. Ma a parte la mia retribuzione, torno a sottolinearti come poter lavorare con finanziamenti adeguati faccia veramente la differenza.

E per quanto riguarda i ricercatori italiani?
L’iter è un po’ diverso. Se decidessi di tornare probabilmente lo farei esclusivamente per un fatto meramente affettivo. Penso infatti che, oltre a dover superare la difficoltà di dover trovare un laboratorio dove lavorare in un sistema spesso troppo saturo, sarei anche probabilmente costretto ad un passo indietro dal punto di vista scientifico. Per non parlare di quello economico. I salari, infatti, si dimezzano rispetto a quanto si percepisce qui a Berkeley. In Italia il primo anno e mezzo di dottorato ho guadagnato 800 euro al mese, poi la borsa è stata aumentata a 1000 euro.  Ma resta il problema di come poter vivere dignitosamente con l’attuale costo della vita.

Insomma mi sembra di capire che la fuga dall’Italia sia un fattore imprescindibile…
Onestamente sono qui da troppo poco per poter fare una valutazione come quella di decidere di rimanere qui o meno. Sicuramente l’entusiasmo iniziale non si è spento con le prime difficoltà lavorative e linguistiche e nei mie migliori sogni mi lascio aperta la possibilità di continuare i miei studi anche nella east-coast, a New York o Boston per esempio, oppure in Inghilterra. Ammesso che la nostalgia di casa non si faccia sentire prima.
Tuttavia, se dovessi rispondere sulla base di quello che vedo e sento,  posso dire che qui ci sono molti capo-gruppo, anche stranieri, alcuni dei quali molto giovani, segno che le persone veramente capaci hanno la possibilità di crescere e inserirsi sia scientificamente che professionalmente nel mondo della ricerca.

 

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