Venezia 1765. Un caso atroce di parricidio

VENEZIA – Quando il 17 aprile del 1991 Pietro Masi uccise entrambi i genitori l’opinione pubblica rimase sconvolta dell’atroce delitto. In quel parricidio vi erano paure ancestrali che affondavano le loro radici in uno degli archetipi più comuni di diverse culture e religioni. La motivazione dell’omicidio nel caso di Masi era legata all’aspetto economico. Nel caso tratto dai registri del Consiglio dei Dieci di Venezia, invece, alla base c’è solo la pura follia.

Quando i soldati gli misero i ferri ai piedi, sapevano che avrebbero riscosso la taglia dei duemila ducati, come era stato emesso dal bando del Consiglio dei Dieci datato 15 novembre 1765.

Sapevano anche, che la taglia l’avrebbero ottenuta sia che l’avessero consegnato vivo, sia che l’avessero consegnato morto. Quell’uomo, infatti, non era un fuggiasco qualunque. Vestito di abiti stracci, era riuscito a fuggire alla Giustizia veneta per numerosi anni ma ora lo aspettava un palco di legno eretto tra le due colonne di San Marco. Si chiamava Antonio Malinovich e si era macchiato di un reato considerato atroce già nel Settecento: il parricidio. Il Malinovich non era sconosciuto alla giustizia veneziana, già alcuni anni prima aveva scontato una pena alla galera per aver rubato e terrorizzato la gente di un piccolo paese chiamato Gherischi o Gherchi del distretto del Castello di Colmo, della contea di Raspo. I castelli di Colmo e Rozzo erano arroccati nella linea montuosa, detta Vena, che separa il Carso dalla penisola istriana. Il castello, anticamente chiamato Cholm, era di proprietà dei Weimar che lo devolsero alla
chiesa di Aquileia nel 1102.

In queste terre abitava la famiglia del Malinovich. Una famiglia di agricoltori ma lui aveva capito fin dall’inizio che la vita dei campi non sarebbe stata la sua strada. Cosi, procuratosi un archibugio, si aggirava per il paese minacciando e rubando quello che poteva. Il padre, Gasparo, aveva cercato più volte di fargli cambiare indole. In due occasioni lo aveva schiaffeggiato e minacciato di buttarlo fuori di casa se avesse continuato a creargli problemi. Dopo il carcere, in famiglia si sperava che avrebbe cambiato stile di vita, ma non fu cosi.  Era mezzogiorno del 15 ottobre del 1765. La giornata ancora tiepida non accennava all’inverno che sarebbe giunto da li a pochi mesi. Gasparo era dalla mattina che con due lavoratori stava arando i campi per la semina del frumento. L’annata era andata considerevolmente bene e avrebbe potuto sfamare tranquillamente la sua famiglia che, per quei periodi, significava poter dire che era stata un annata fortuna.

La moglie del Gasparo era in casa, si trovava in cucina con una parente che l’aiutava a fare da mangiare per il marito e i due lavoratori. Nei pressi vi era il figlio minore, Gregorio, che sistemava alcune cose nella stanza vicina alla cucina. Ad un tratto sentirono una porta sbattere in malo modo. In un primo momento pensarono alla corrente d’aria. Ma non era quello. Entrò in cucina Antonio, il figlio maggiore. Aveva con se quell’odioso fucile che si portava appresso anche dopo la condanna che aveva subito. Si diresse subito verso la madre che spaventata da quell’arrivo improvviso si era appoggiata alla parente. Antonio iniziò fin da subito ad urlarle contro del perché suo padre stesse seminando frumento anziché spelta. Con la farina di spelta, dal sapore forte e di colore scuro, si producevano tipici biscotti piatti e si poteva produrre anche pane. La donna, sempre più agitata, cercò di calmarlo, suggerendogli che il padre sapeva quello che faceva. Ma quanto detto non servi a calmare il figlio esagitato. Mentre la donna era di fronte a lui, Antonio, abbassò il fucile e senza proferire parola la colpi con un pugno nel petto, facendola cadere addosso alla signora che stava assistendo a quell’assurdo evento. La madre si mise a piangere disperata e in quel momento  rientrò il marito per il pranzo. Quando arrivò vide il figlio Antonio che stava urlando a sua moglie  seduta sulla sedia che piangeva mentre si premeva il petto.

Gli animi erano accesi. Antonio, osservò il padre e si diresse verso di lui, ponendogli la stessa domanda assurda sul frumento. Gasparo lo affrontò, gli diede del furbo, gli disse che avrebbe dovuto andare a lavorare anziché pensare a cosa si piantava nei suoi campi, poi si girò verso la moglie per controllare come stava. Fu in quel momento che Antonio prese il fucile in mano. Fu un attimo durante il quale tutta la vita di quelle persone cambiò. La moglie urlò di fare attenzione e quando Gasparo si rigirò verso il figlio, ricevette una fucilata tra la quarta e la quinta costola. I grossi pallettoni, vista la distanza ravvicinata, lacerarono la camicia e aprirono un buco all’altezza dei polmoni. Con quel colpo nessuno sarebbe potuto sopravvivere. Il sangue e parte dei polmoni imbrattarono il pavimento, e l’uomo esanime cadde a faccia in giù sul pavimento.

Nel processo, trascritto nel registro criminale, i capi del Consiglio dei Dieci scrissero “dovette in momenti senz’alcun spirituale soccorso per mano di chi da lui ricevuta aveva la vita, finendo la propria, inconfesso morire”. Quell’uomo, semplice, umile, che per tanti anni aveva subito le angherie della sua stessa progenie, ora giaceva morto sul pavimento della sua cucina. La madre si mise ad urlare sconvolta, mentre il fratello minore, che aveva sentito lo sparò entrò di corsa. Vide il corpo del padre in una pozza di sangue e si lanciò contro Antonio, il quale, sempre con sangue freddo, estrasse dalla cintola una pistola e puntata contro il fratello gli sparò. Ma il colpo non partì. Per un solo caso non vi furono due morti. Antonio, resosi conto che non poteva fare altro, riusci ad uscire dalla porta di corsa, lasciandosi alle spalle il cadavere del padre ed il resto della famiglia sconvolta da quanto accaduto.

I casi di matricidi e parricidi erano seguiti dal temibile Consiglio dei Dieci, e furono i loro soldati che iniziarono subito ad interrogare e raccogliere le prove. Proclamarono che si presentasse immediatamente alle prigioni del Palazzo Ducale, entro ventiquattro ore, ma Antonio Malovich, nel frattempo, era emigrato in uno stato straniero.

Il bando che fu emesso il 15 novembre, prevedeva che se fosse stato arrestato sarebbe stato decapitato, dopo avergli tagliato la mano più valida. Dopo la decapitazione il corpo sarebbe stato squartato e i quarti appesi ai soliti luoghi. I suoi beni furono immediatamente sequestrati. Ma un delitto cosi atroce doveva essere perseguito anche lontano dalla città di Venezia, cosi si specificava che la taglia era fissata in duemila ducati se preso vivo o morto in uno stato estero. Se visto in un qualsiasi paese le campane dovevano suonare per avvertire la popolazione.  Chiunque lo avesse aiutato, con l’invio di denaro, gli avesse scritto o fosse venuto in contatto diretto, sarebbe stato passibile di bando, prigione o galera, nonché, confisca a sua volta dei beni. Da una storia simile ci si aspetta che l’assassino sparisse per sempre ma questa volta non andò cosi. Passarono cinque lunghi anni ma la giustizia non si era dimenticata di quel grave fatto di sangue. Il 27 novembre del 1770 i registri dei necrologi segnano che Antonio Malinovich, figlio di Gasparo, fu decapitato e squartato per ordine del Consiglio dei Dieci a San Marco, come il bando aveva scritto. Qualcuno, per quella morte, guadagnò i suoi duemila ducati e pose fine, a distanza di un cosi lungo periodo di silenzio, ad una storia che tanto aveva fatto parlare la gente.

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