Venezia 1758. Il caso di Giovan Maria Milevoi, il sarto assassino

VENEZIA – In questi giorni assistiamo a vari dibattiti sulla metodologia seguita nelle indagini dei casi più eclatanti di cronaca, dal caso Yara al caso Scazzi. Durante il periodo della Serenissima, le indagini, erano svolte con i pochi mezzi messi a disposizione dalle conoscenze scientifiche di quel periodo. Ciò non deve trarre in inganno però sulla procedura che, con meticolosa professionalità, era svolta. Come si legge nei bandi emessi, il reo, aveva violato non solo le leggi di Dio, ma anche quelle del Serenissimo Principe e per tale motivo doveva essere perseguito fino alla risoluzione dell’omicidio. Un caso emblematico che divenne famoso nelle cronache dell’epoca fu quello del sarto da donna Giovan Maria Milevoi.

E’ la sera del 9 luglio del 1758, al lume di candela, in una stanza del palazzo Ducale, il magistrato Francesco Angaran, avvocato di Comun, sta leggendo una perizia di due chirurghi. Son due perché le perizie erano sempre doppie, questo evitava che potessero essere manipolate e allo stesso tempo, offriva un servizio migliore e più preciso. La perizia riportava il seguente testo: “Riferiamo noi sottoscritti di esser stati chiamati d’ordine dell’ecc. Signor Francesco Angaran avogador di Comun, ieri sera giorno li 8 suddetti verso le tre della notte in casa di domino Carlo Gattinoni fabro in contrada di Sant’Appolinare, ove introdotti alla presenza del S.C. In una camera, abbiamo ritrovato in terra il nudo cadavere di Antonia Lazari d’anni 60 in circa, abitava in contrada di San Boldo, e da noi esaminato attentamente il di lei cadavere in tutte le sue parti, gli abiamo ritrovato cinque ferite tre delle quali erano assolutamente mortali, e due senza pericolo di vitta. Le due senza pericolo erano vicino alla clavicola destra, sole integumentali, et erano longhe e larghe un  terzo di ditto, altra ferita nel collo nella parte sinistra e passava fuori dalla parte destra, con lesione dell’arterie carotidi, vene iugulari, trachea, et esofago, ferita assolutamente mortale, era larga nel suo nascer un mezzo dito, e nel terminar un terzo di ditto. Altra ferita nella parte posteriore del collo principia sotto l’occhio destro, e va a terminar verso il torace, con gran lacerazione, era di lunghezza quattro buone ditta transversa, et anche questa assolutamente mortale. Altra ferita sotto l’ocipite nella parte sinistra, va a terminar verso la mandibola inferior, con grave lacerazione, et anche questa assolutamente mortale. Giudichiamo le suddette ferite fatte da instrumento incidente, e perforante, come cortello lanciato, o arma simile”.

La relazione terminava con la formula di giuramento. Una annotazione in calce si riferiva ad un coltello, trovato durante la perquisizione della scena del crimine, che fu mostrato dallo stesso magistrato ai due chirurghi, i quali dopo averlo descritto nei dettagli e confrontando le ferite con la lama, giurarono che poteva essere l’arma del delitto.  

Infatti, subito dopo il ritrovamento del cadavere, parzialmente denudato, un soldato aveva stazionato davanti all’entrata controllando che nessuno salisse ed inquinasse la scena del crimine. Poco dopo erano arrivati altri soldati, seguiti dal magistrato, ed avevano perquisito tutto l’edificio. Dentro una cassa si erano trovati il resto dei vestiti, compreso il busto macchiato di sangue. Nell’angolo della cucina vi era la cuffia sempre inzuppata di sangue e nei pressi il coltello che si fece periziare. Era chiaro che l’assassino era calmo e meticoloso. Senza preoccuparsi di tutto quel sangue aveva rivestito il cadavere della donna con la camicia sotto alle spalle, attorno al collo, e aveva rimesso il resto dei vestiti lordi di sangue nella cassa. Si decise di conoscere di più dell’arma del delitto. Il perito scelto fu tale Iseppo Giorgiutti, figlio di Giorgio, nativo della Città di Udine e da circa 20 anni residente a Venezia. Svolgeva la professione di corteller in calle dei specchieri a San Giuliano. Nella sua perizia descrive il coltello come un coltello da pittore, di fattura antica. Giorgiutti riporta che la lama doveva essere spezzata, in quanto in origine quei coltelli erano più lunghi. La lama spezzata doveva essere stata appuntita a mola. Poteva anche essere stata una baionetta alla quale era stato applicato il manico anche se era una ipotesi da scartare, secondo il suo parere. Lo trovò sporco di sangue e da una parte della lama erano attaccati tre o quattro mezzi capelli. Anche in questo caso un secondo corteller periziò la stessa arma, giungendo alle stesse conclusioni. In contemporanea con le varie perizie richieste si iniziarono ad ascoltare tutti i testimoni, al fine di capire a chi appartenesse il corpo, perché fosse stato trovato in quella casa, gli ultimi spostamenti della vittima e tutte le persone che la conoscevano. Si incominciò dai vicini della casa dove era stato trovato il cadavere. Iseppo Nadalini figlio di Giacomo, residente a Sant’Aponal, sartoda uomo, in calle a San Mattio contrada di Sant’Aponal è un testimone preciso in questo processo.

 

Sabato scorso ricordava che verso le 16 del pomeriggio aveva visto una signora attempata di “pingue corporatura” vestita in veste e “zensale” bussare alla porta della casa di Carlo Gattinoni, fabbro, situata appresso la sua bottega. Successivamente verso le 19, arrivò un uomo vestito in tabarro con parrucca che chiese se sapeva dove risiedeva Giovan Maria, sarto da donna. Provò a cercarlo bussando alla stessa porta dove prima aveva bussato la donna, senza trovare nessuno. Alle 22 circa, tornò di nuovo, dicendo che non trovava una sua parente e gli chiese se per caso l’avesse vista. Alcune persone nel frattempo dissero che avevano sentito delle grida di aiuto provenire proprio da quell’appartamento e di aver visto uscire di corsa il sarto da donna con il viso graffiato. Verso mezzanotte arrivarono il capo contrada e si introdusse in casa di Giovan Maria trovando la donna trafitta e morta, che fu riconosciuta come la donna che alle 16 aveva bussato ed era entrata in quella casa. Il resto era descritto nei dettagli dalla perizia. Il magistrato chiese all’interrogato se poteva supporre il movente di un possibile omicidio. Iseppo disse che la gente sosteneva che la causa fosse per rubare alla donna i gioielli che indossava. Sia il proprietario di casa, sia il datore di lavoro, vantavano dei crediti nei confronti di Millevoi. Il magistrato aveva anche fatto un controllo delle dichiarazioni dei redditi, trovando una situazione finanziaria drammatica. Un altra testimone si ricordava di aver visto Meneghina, moglie del sarto da donna citato da Iseppo, sulla riva del Vin che si incamminava verso il Ponte di Rialto con sua figlia di tre anni, verso le otto di sera.

 

Si possedeva l’arma del delitto, si conosceva il movente e si sapeva che il sarto da donna poteva essere collocato sulla scena del crimine.
Con questi dati e con quelli emersi dagli altri interrogatori, si poteva creare un quadro preciso della vittima e del carnefice. Il 4 agosto si emise un bando contro Giovan Maria Milevoi, “Imputato per quello che solita la quondam Antonio Lazari donna vedova benestante, di grave età da molto tempo trasferitesi di tratto in tratto per senso di cristiana lodevole compassione alla casa dell’inquisito Giovan Maria Milevoi, ridotto per il suo mal governo in miseria, per sovvenire in liti, che domenica sua moglie et una lor picciola figlia o con elemosine o con lavori che procurava alla stessa, esso inquisito che anche in passato aveva dimostrato alle di lei beneficienze un sentimento di rea ingratitudine come in processo, addochiasse, che la medesima quasi sempre, benché vestita succintamente, era adornata le braccia e le dita con ricchi manini d’oro a passetti di diamanti, et anelli di smeraldi e brillanti, e però determinatosi come dalle risultanze del processo stesso evidentemente dessumersi, d’impradonirsi di quegli effetti di valore, conculcate non solo le leggi divine, e del Principe, ma quelle ancora del dovere, dell’ospitalità, e della natura, rissolvesse per esseguire questa perfida sua intenzione di privare barbaramente di vita con orrido odiosissimo assassinio chi tante volte beneficato lo aveva. In fatti partitosi la sventurata dalla propria casa la mattina del sabbato 8 luglio decorso con gli ornamenti suddetti, e dopo aver ascoltata l’ultima messa nella chiesa sua parrocchiale di San Boldo, trasferitasi alla casa del Milevoi per riaver certo merlo (merletto ndr.) due giorni avanti portato alla di lui moglie, perché lo acconciasse, fosse veduto esso inquisito che solo era in casa, scender la scala aprirle la porta, et in quella introdurla si udesse da vicini un quarto d’ora doppo, cioè circa il mezzo giorno in quela casa una voce femminile languidamente lagnarsi, e chiedere aiuto. Si sentisse da persona abitante nell’appartamento superiore della casa stessa una grave scossa di tutto lo stabile, come se persona piombata fosse sul pavimento, e nel tempo stesso un grido di non articolate parole. Si vedesse da botteghieri contigui un altra mezz’ora doppo che la moglie dell’inquisito portarsi alla propria abitazione, seco conducendo la figliola a mano, indi veduti fossero poco dopo, verso le ore 18 da chi l’inquisito, da chi la moglie con la ragazza a partire esso con il viso graffiato e in atto di tenerselo con un fazzoletto coperto, ne più fosse veduta la detta Lazari da quella casa sortire”

Il bando viene letto dal comandante Giovan Battista Pace, sopra le scale di San Marco alle ore 13 e sopra le scale di Rialto alle ore 17.
Mentre si continuava a interrogare e a incrociare le varie testimonianze, il 5 agosto furono inviati alcuni soldati ad arrestare preventivamente il sarto da donna, ma questi era assente. Fu immediatamente diramata una descrizione: “Piccolo di statura con le gambe storte particolarmente una, col naso schizzo, scarno, di età di 40 anni. La moglie era piccola di statura con una spalla più alta dell’altra di età 24 anni o 26 ed era incinta”. Fu fatto anche un disegno ed inviato a tutte le frontiere e alle principali città della Serenissima. Il 9 agosto viene proclamata la condanna. Condannato a salire su di una peata e condotto a Santa Croce, durante il tragitto doveva ricevere cinque colpi di tenaglia infuocata, giunto gli fosse tagliata la mano valida e trascinato a coda di cavallo nel luogo del delitto a Sant’Apolinare dove gli fosse tagliata anche la seconda mano. Infine portato a San Marco, tra le due colonne,  sarebbe stato decapitato ed il cadavere squartato.

A distanza di alcuni mesi questo grave delitto trovò la sua conclusione. Il 13 novembre del 1758 il capitano Mattio Varrutti si dirige a Rovigo e scorta il bandito Giovan Maria Millevoi alle prigioni. Estratto lo stesso giorno dalle carceri, al cospetto del magistrato vi era un uomo di statura bassa, di color olivastro, barba nera, vestito con “veladina bianchizza, fanella rossa, parruchin vecchio chiaro, calze e scarpe”. Era stato arrestato a Roma, nell’estate passata. Il magistrato gli chiese se sapeva il motivo dell’arresto e Milevoi negò. Poi affermò che sapeva di essere stato arrestato per aver offeso Dio e la Giustizia del Principe. Il magistrato allora gli disse: “in questi giorni di tempo che passeranno prima dell’esecuzione pensa seriamente all’anima tua per salvarla, ringraziando Dio di questo tempo di penitenza che ti concede…”
Il giorno 11 dello stesso mese viene accolta la grazia per i tormenti. Lunedì diciotto dicembre del 1758, il sarto assassino, venne condotto alla solita ora sopra il palco e decapitato. La metodologia applicata ebbe come risultato la risoluzione di questo orrido caso nell’arco di qualche mese.

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