L’intervista. Simone Perotti. ‘Siamo mucche da latte che rischiano il tritacarne’

ROMA – Simone Perotti è uno scrittore italiano. Laureato in Lettere Moderne, dopo aver conseguito un master in Comunicazione è divenuto manager in aziende italiane e multinazionali,   continuando a scrivere racconti e articoli per riviste underground e a navigare come skipper e istruttore di vela.

Nel ‘95 ha pubblicato il suo primo libro, Zenzero e Nuvole – Manuale di nomadismo letterario e gastronomico; nel 2005  Stojan Decu, l’Altro Uomo (Bompiani), romanzo che ha vinto il premio letterario la Volpe D’oro. Seguono molti altri. Nonostante la buona accoglienza della critica, è con il suo sesto libro Adesso Basta – Lasciare il lavoro e cambiare vita che arriva al successo. “Adesso basta” descrive il fenomeno del downshifting, ovvero la volontaria e consapevole autoriduzione del salario e delle ore di lavoro, per poter godere di maggiore tempo libero. Un’esperienza vissuta da Perotti in prima persona che, dopo vent’anni di onorata carriera, rinuncia allo stipendio per dedicarsi alla scrittura e alla navigazione. Una storia rivoluzionaria, la cui filosofia  è bene capire seguendo questa intervista, che svela le ragioni che universalmente  ci accomunano.

D. Nei paesi evoluti le aziende torchiano i lavoratori per poi liberarsene. Produrre cosa significa?

S. P. Produrre, oggi, nel meraviglioso mondo del Capitalismo Liberista, significa solo generare profitto per gli azionisti, prodotto, cliente, mercato, impatto sociale della propria attività sono concetti che hanno perduto senso quasi per tutti gli attori in campo. Ecco perché la finanza è diventata sovrana. Oggi il valore finanziario complessivo delle aziende quotate viene calcolato in circa dieci volte il valore reale dei beni/aziende che generano quelle valutazioni. E’ in atto una mega-speculazione globale al cospetto della quale la qualità dei prodotti, l’impatto ambientale, la corrispondenza tra promessa di mercato e fiducia, sono solo delle scocciature da evitare. Ecco perché i lavoratori sono materiale umano del tutto fungibile. Per giocare a scacchi basta uno bravo, freddo calcolatore. Per fare impresa tenendo conto del benessere complessivo di società, persone, salute, ambiente, prodotti, mercato e azienda serve una relazione molto stretta tra imprenditore, regolatori, mercato, clienti, media. Un patto saltato molto tempo fa, e credo ormai irrecuperabile.

D. Perché tanti disoccupati nella società del benessere?

S.P. Perché questa non è la società del benessere. E’ la società dello sfruttamento industrializzato ordito per generare il benessere di pochi. Il resto, tutti noi, siamo mucche da latte. Ci danno da mangiare quanto basta perché non moriamo, altrimenti niente latte. Ogni tanto ci elargiscono qualcosa per darci la sensazione di poter tirare avanti. Ma la sostanza è che dobbiamo essere vivi per poter essere munti. Le crisi sono sempre più frequenti e sempre più boarderline ai default e alle stragi economiche. Le crisi ogni settant’anni sono solo un bel ricordo. Si sono resi conto che non convenivano: erano troppo rare e facevano stramazzare l’intero sistema. Meglio tante crisi periodiche, gravi ma senza eccedere. Durante una crisi economico-finanziaria l’elite che governa i fili del denaro si arricchisce in modo straordinario e la massa si impoverisce. Ma occorreva far impoverire tutti un po’, non troppo. Altrimenti chi avrebbe acquistato di nuovo, con la ripresa, per generare una nuova bolla funzionale alla prossima crisi? In quest’ottica il disoccupato è un dettaglio. Che siano il 10% o il 15% sono minuzie. Non facciamo perdere tempo ai finanzieri con questi stupidi particolari, prego….

D. Hai salpato l’ancora per scrivere e navigare. Perché?

S.P. Soprattutto si tenta di mettersi al riparo da questo tritacarne. Che le cose siano difficili e dure, ci sta. Ma che lo siano, almeno, senza far arricchire qualche sfruttatore. Se devo avere problemi a mettere insieme il pranzo con la cena, che siano almeno fatti miei, che sia almeno la conseguenza delle mie scelte compiute sulla mia via. A star dietro alla cosiddetta società del benessere finivo col fare il gioco degli altri e, in più, non vivevo come dovevo. Io sono nato per scrivere e navigare. E quello ho deciso di fare. Il gigante, se ti fai le domande giuste per la tua vita, ha i piedi di argilla. Una buona domanda, fatta davvero, fatta sinceramente a te stesso, e lui è spacciato.

D. Trovare un’alternativa significa necessariamente    solitudine?

S.P. Ecco un bel punto. Purtroppo, ad oggi, direi di sì. La massa, intesa come la maggioranza della gente nel nord-ovest del pianeta, segue il pifferaio magico. Dunque si turi le orecchie per non sentirlo e cambi sentiero ti ritrovi spesso da solo. Il punto però è che prima non avevi una gran compagnia. Dunque meglio consapevolmente e realmente soli, per dei motivi corretti, che apparentemente e inconsapevolmente non soli per dei motivi sbagliati. Meglio fare la strada sbagliata in compagnia o quella giusta da soli? Qui, ognuno, può tentare la sua risposta. Io mi sono dato la mia. E ne pago, ovviamente, il prezzo.

D. Cosa è il  downshifting?

S.P. Il solito termine americano. Indica il gesto di alzare la testa per rendersi conto di come stanno le cose. A quel punto la reazione è diversa per ognuno. C’è chi la riabbassa (meglio non vedere!), chi rallenta un po’, chi cambia. E poi c’è chi scende dall’automobile e se ne va, lasciando lo sportello aperto. Io mi vedo, direi, in quest’ultima immagine.

D. Se lavorassimo meno lavoreremmo tutti?

S.P. Esatto. Solo che se lo dici sembri un simpatico naif, un po’ veteromovimentista, un po’ anarco-trozkista. Uno scemo, insomma. Solo che è di banale evidenza. Tutti, meno, con proventi maggiormente diffusi e, però, con un’attitudine massiva alla riduzione dei consumi. Il punto è sempre quello: inutile lamentarsi del sistema se tu aderisci alle sue offerte. Se proviamo a cambiare consumi, comportamenti, mobilità, tempi, relazioni, non serve che il sistema cambi. E’ già spacciato.

D. La schiavitù è una condizione inevitabile?

S.P. Al contrario. La schiavitù è una scelta. Non vengono mica i carabinieri con la camionetta e i manganelli, la mattina, per farci andare a lavorare, no?! Se si consuma meno, si vive in altri luoghi, in un altro modo, si ha bisogno di molto meno denaro. A quel punto si può lavorare diversamente per qualità e quantità. Il concetto non è così difficile da comprendere. Solo che sono tutti terrorizzati dal cambiamento…

D. Perché si ha paura della libertà?

S.P. Perché costa fatica, perché è un lavoro quotidiano, pone problemi, incertezze, fa fare domande, e la gente, tutti noi, odia farsi domande. Le risposte terrorizzano. Meglio stare nel flow, che porta tutto con sé, evita domande imbarazzanti. Soprattutto consente di lamentarsi un po’ e periodicamente, che è l’ideale per tutti noi. Se sei libero poi ti tocca essere felice, o almeno tentare di esserlo. Una vera condanna. Se odi qualcuno rendilo felice e poi pretendi che te lo dimostri sorridendo. Quello s’ammazza…

D. Il pianeta sta diventando sempre più povero?

S.P. Beh, le sacche di valore da razziare, prima o poi, finiranno. Il capitalismo vive per sfruttare periodicamente territori diversi. Quando li ha spolpati passa a un altro territorio. Prima o poi finirà il pianeta e allora vedremo che succede. Io spero di essere vivo, perché la scena sarà, credo, piuttosto ridicola.

D. Cosa può fare ciascuno per cambiare lo status quo?

S.P. Cambiare quello che fa, il motivo per cui lo fa, cambiando luoghi, consumi, impatto ambientale, modi di trascorrere il tempo, occupazioni. Solo che per farlo bisogna essere cambiati dentro. E per cambiare dentro occorre tanto impegno, fare almeno una cosa al giorno per quel cambiamento, essere tenaci, andare controcorrente. Il premio finale è straordinario, ma bisogna crederci senza vederlo, avere fede nelle proprie capacità di costruire non un Mondo migliore, ma un proprio mondo migliore. Il che, tra l’altro, avrà un impatto straordinario su tutti. Un uomo che cambia, cambia il mondo. Che infatti non cambia perché nessun uomo cambia se stesso.

 

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