“Il calcio agli arresti domiciliari” di Francesco Costanzo

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori.

Fino all’inizio delle vacanze, verranno pubblicati con una cadenza di circa dieci giorni.

Vi presentiamo “Il calcio agli arresti domiciliari”, un racconto poetico di Francesco Costanzo.

 

 

Adesso era tutto chiaro.
Quando rividi nuovamente il signor Vincenzo presentarsi davanti a me dopo vent’anni, con le manette ai polsi, per rispondere all’interrogatorio di convalida dell’arresto in flagranza disposto la sera prima dai carabinieri per il tentato furto in una villa, capii il motivo per il quale quell’uomo vent’anni prima poteva arbitrare le partite di calcio in cortile della mia squadra “Azzurra” solo dal terrazzo di casa: perché era agli arresti domiciliari.
Ebbi l’impressione che non mi riconobbe e d’altronde non era per nulla facile.
Quando lui arbitrava e io tiravo calci ad un pallone nel cortile del palazzo di un quartiere molto popolare di Palermo, i capelli li avevo tutti in testa, neri, ricci e folti e il mio fisico era esile e asciutto, il viso molto scavato. Adesso, invece, rispettato magistrato della procura di una piccola e ridente cittadina del nord Italia, i miei capelli erano ormai un vago ricordo e il mio fisico era parecchio appesantito.
L’interrogatorio fu molto rapido, in quanto le prove a carico del signor Vincenzo erano troppo eclatanti: cinque testimoni lo avevano visto entrare in casa e inoltre  i carabinieri lo avevano arrestato nel salone della villa con in mano un chiavistello che era servito senza alcun ombra di dubbio a scassinare la porta d’ingresso della lussuosa abitazione dell’avvocato Lenzi.
Il processo si svolse qualche settimana dopo e il signor Vincenzo fu condannato con il rito abbreviato, valutate le attenuanti del caso, a 3 anni di reclusione, che questa volta avrebbe dovuto scontare, in quanto aveva già usufruito della condizionale.
Scoprii anche che gli arresti domiciliari di vent’anni prima riguardavano un’ipotesi di truffa sui bancomat, ipotesi che poi venne confermata dal processo con condanna a due anni e sei mesi, non scontata, perché  in tal caso venne applicata la condizionale.
Quel giorno in cui fu condannato per l’ultima volta, dopo la convalida dell’arresto da me disposto, ero presente nell’Aula del tribunale, nonostante non avessi più alcun dovere lavorativo per quel che riguarda il caso del signor Vincenzo, dato che non ero il giudice competente a condurre il dibattimento.
Volli però essere egualmente presente in Aula, perché volevo rivedere il signor Vincenzo e mi ero pentito di non avergli rivelato la mia identità il giorno in cui convalidai il suo arresto.
Ma non trovai nemmeno quel giorno il coraggio di dire al signor Vincenzo che ci legava un torneo di calcio in cortile.
Quel torneo di calcio fu da lui personalmente organizzato venti anni fa con la costituzione di 5 squadre di calcio di ragazzi tra i 13 e 16 anni, che abitavano in quel quartiere difficile di Palermo.
Io in realtà non abitavo all’interno di quel quartiere, ma in uno adiacente e partecipai al torneo come “straniero”, in quanto amico del figlio del signor Vincenzo , Sandro, che occupava il mio stesso banco di scuola nella terza C della scuola media Chindemi di Palermo.
La mia squadra, composta oltre che da me e da Sandro, dal fratello di quest’ultimo e da altri due ragazzi piuttosto vivaci e poco inclini a staccarsi anche solo nel pronunciare un numero dal loro amato dialetto siciliano, non sembrò affatto irresistibile nelle prime due partite, che perse entrambe nettamente.
Poi nelle successive partite cominciò a migliorare di partita in partita, aggiudicandosi infine il torneo.
Il signor Vincenzo contribuì sicuramente alla vittoria della mia squadra, non tanto con le sue decisioni arbitrali, che furono tutto sommato improntate a una certa imparzialità, quanto con le indicazioni da consumato e piuttosto rumoroso allenatore che faceva piovere dal terrazzo all’indirizzo della squadra dei suoi figli e quindi della mia squadra durante le partite che mi vedevano impegnato.
La doppia veste di arbitro e allenatore era peraltro accettata di buon grado da tutte le squadre partecipanti al torneo non solo per l’imparzialità della versione arbitro del signor Vincenzo, ma anche per la irresistibile simpatia tipicamente siciliana del signor vincenzo e quell’atteggiamento da padre di tutti i ragazzi del torneo che il signor Vincenzo assumeva.
Le partite disputate furono tantissime: le squadre si incontrarono tra di loro per ben quattro volte e le partite duravano un’ora l’una con intervalli di quindici minuti , durante i quali le squadre salivano sul terrazzo del signor Vincenzo per bere un tè caldo.
Vent’anni dopo avevo capito anche il motivo dell’intensità del calendario del torneo: quell’uomo agli arresti domiciliari non sapeva come passare il tempo e aveva organizzato il torneo per divertirsi un po’ e stare con i suoi figli.
Il torneo si decise all’ultima partita, quando Azzurra affrontò da seconda in classifica la capolista Real Palermo, partendo da una situazione di svantaggio di un punto in classifica.
La nostra vittoria ci avrebbe portato quindi in testa di due punti e avrebbe determinato la vittoria del torneo da parte nostra.
Fu una partita molto combattuta con una continua altalena di goal e di emozioni. A pochi minuti dalla fine il punteggio era ancora in parità e la mia squadra non sembrava disporre delle energie necessarie a battere l’avversario.
In quella decisiva partita il mio rendimento era stato totalmente pessimo e avevo persino fallito un calcio di rigore.
In quegli ultimi minuti della partita  però sentii una specie di molla scattare dentro e ad un certo punto ricordo che dissi nella mia testa “si vince”.
Dopo due o tre falli di seguito nel tentativo di riconquistare la palla sottraendola a uno dei lunghi fraseggi che il Real Palermo stava attuando per portare a casa il pareggio – falli per i quali fui severamente redarguito dal signor Vincenzo -, finalmente riuscii a catturare il  pallone al centro del cortile, recapitarlo a Sandro, correre velocemente verso la porta del Real Palermo con uno scatto in diagonale alla destra di Sandro e riceverlo proprio sui piedi a cinque metri dalla porta avversaria.
Una volta stoppato perfettamente e messo per terra, il pallone necessitava adesso solo di essere calciato in diagonale sul palo opposto  a quello rispetto al quale il mio corpo si trovava in linea.
Il tiro però non partì mai dal mio piede perché dietro di me arrivò alla disperata rosario del Real Palermo che arpionò violentemente il mio piede sinistro, impedendo al destro di calciare e spedendo le mie ginocchia direttamente a sbucciarsi fragorosamente contro l’asfalto.
Il fischio del fischietto del signor Vincenzo fu potente e deciso. Era rigore netto. Tutti corsero ad abbracciarmi, ma io ero troppo preoccupato delle mie ginocchia sanguinanti per poter gioire.
Mi alzai cautamente e non riuscii a tenere le gambe dritte, più per la suggestione che per vero dolore.
A quel punto occorreva decidere chi dovesse calciare il rigore decisivo. Io ne avevo già fallito uno e non me la sentivo di tirarne un altro, anche perché ero troppo preoccupato dalle condizioni delle mie ginocchia e di poter svenire alla vista del sangue che cadeva copiosamente dalle stesse.
Ma dal terrazzo l’allenatore signor Vincenzo fu fermo nell’indicare che il rigore lo dovevo battere io, gridando in modo eloquente “Ciccio, lo deve battere Ciccio”.
Rivolsi lo sguardo al terrazzo, indicando con la mano al signor Vincenzo che forse non era il caso che fossi io il designato a battere il calcio di rigore.
Sandro prese il pallone in mano e si diresse verso il dischetto del rigore, ma il signor Vincenzo gli intimò urlando di lasciare il pallone e di darlo a me.
Tagliai corto. Presi il pallone e mi avviai verso il dischetto tenendo le gambe semipiegate e guardandomi ogni tanto il sangue che scendeva dalle ginocchia.
Poi il momento arrivò. L’arbitro fischiò. D’un tratto fui determinato, drizzai le gambe e piegai il corpo verso il pallone prendendo una rincorsa di pochi passi.
Con un tiro angolato mandai il pallone alle spalle del portiere.
Vincemmo la partita e tutta la mia squadra esultò abbracciandomi, mentre il signor Vincenzo applaudiva dal terrazzo in modo scrosciante, facendo trasparire dal suo viso la soddisfazione per avere azzeccato l’ultima scelta tecnica della partita.
Una settimana dopo il torneo si svolse la premiazione sul  terrazzo del signor Vincenzo con una abbondante cena a base di piatti tipici siciliani.
L’estate ormai era alle porte e con la fine delle lezioni e dopo l’esame di terza media, i miei contatti con Sandro si fecero nei mesi via via meno assidui.
Poi, un anno dopo quel torneo, io mi trasferii con la mia famiglia nella città del nord dove tuttora abito e lavoro  e non ebbi più notizie di Sandro e della sua famiglia.
Sapere il motivo per il quale il signor Vincenzo arbitrava le partite solo dal terrazzo non offuscò più di tanto l’immagine positiva che conservavo comunque di lui, anche se mi risultava difficile adesso comprendere come un truffatore  oltre che ladro potesse essere così imparziale nell’arbitrare partite di un torneo di calcio che vedevano coinvolti direttamente i suoi figli.
Dopo il giorno in cui andai al processo e non ebbi il coraggio di avvicinarmi al signor Vincenzo, decisi che era meglio lasciare stare, anche perché rivedere quel signore con i capelli bianchi, con l’aria depressa, non si conciliava bene con i ricordi che avevo in mente di quell’uomo allegro e giocoso di 35 anni che faceva da padre a più di venti bambini.
Qualche mese dopo quel giorno però lo incontrai nuovamente, neppure tanto inaspettatamente.
Facevo parte della squadra di calcio dei magistrati della procura.
Il direttore del carcere dove il signor Vincenzo era detenuto ebbe la sciagurata idea di organizzare una partita di calcio tra la squadra dei magistrati e la squadra dei detenuti. La partita avrebbe dovuto svolgersi nel campo di calcio che sorgeva all’interno del carcere.
Io e i miei colleghi avevamo qualche perplessità sull’opportunità di svolgere un incontro del genere, dato che i detenuti seppure in fase rieducativa, non potevano ovviamente avere troppi motivi per essere gentili con chi li aveva condannati a vivere reclusi in un edificio.
Nonostante tali perplessità, il capo della procura ci suggerì caldamente di accettare l’invito e quindi ci presentammo una domenica pomeriggio al campo del carcere.
L’arbitro della partita era il direttore del carcere e ciò tranquillizzò un po’ me e tutti i miei colleghi.
Gli spettatori, ovvero i reclusi, erano accalcati vicino alle finestre spalancate che davano direttamente sul campo di calcio del carcere.
La partita fu  combattuta e giocata in modo, deciso, ma leale dai detenuti.
Il primo tempo fino zero a zero, ma le occasioni non mancarono.
Nel secondo tempo i detenuti passarono in vantaggio dopo cinque minuti, ma furono ripresi dieci minuti più tardi da un tiro da fuori area del mio collega Ruta.
Quando mancavano ormai una manciata di minuti alla fine della partita, il direttore del carcere non potè non fischiare un rigore solare a nostro favore.
Toccava a me andare sul dischetto. Non sapevo se fosse il caso o meno di segnare, visto che nonostante fin ad allora i detenuti si fossero comportati civilmente, non ero sicuro che una nostra vittoria, a pochi minuti dal termine e per giunta con un calcio di rigore non avrebbe scatenato le ire degli spettatori di casa.
Mi avvicinai al pallone posizionato sul dischetto del rigore incerto sul da farsi, pensando a come poter tirare in un modo che mi consentisse da una parte di non segnare e dall’altro di non destare il sospetto che lo stessi sbagliando apposta.
I miei ragionamenti furono però bruscamente interrotti da un urlo deciso e potente proveniente da una delle finestre che dava sul campo. Era il signor Vincenzo, che mi urlava come anni fa “Ciccio, lo deve tirare Ciccio”.
Tutto il carcere ammutolì. Mi voltai sorpreso verso il signor Vincenzo e vidi la sua mano indicare fermamente il dischetto davanti a me, come ad invitarmi a calciare.
Mi girai verso il pallone, presi la solita breve rincorsa e piazzai la palla dove il portiere non poteva arrivare.
I compagni mi corsero incontro, un po’ titubanti, per abbracciarmi, ma prima che mi potessero raggiungere, io ero già sotto la finestra da dove il signor Vincenzo aveva ancora una volta, dopo vent’anni, urlato con tutti il fiato in gola il mio nome.
Sollevai il capo in direzione del suo volto. Sul quel volto, scavato dal dolore e dalle fatiche della vita, vidi riemergere finalmente un sorriso.
Sorrisi anch’io. Alzai il dito indice puntandolo nella sua direzione per evidenziare che il goal era dedicato a lui.
Tutti applaudirono.

 

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