Etna Comics. Gabriele Mainetti racconta il suo cinema

CATANIA – Grandi ospiti, come sempre, hanno contraddistinto Etna Comics, festival internazionale del fumetto, del gioco e della cultura pop, giunto alla sua decima edizione e ritornato in presenza (ben oltre centomila i partecipanti e visitatori all’evento) dopo le fasi più limitanti della pandemia.

Il cinema, come di consueto, ha avuto uno spazio significativo nella struttura del Centro Fieristico “Le Ciminiere”. La manifestazione diretta da Antonio Mannino ha avuto la presenza  di personalità eccellenti, tra cui Gabriele Mainetti, regista e co-produttore ( con la sua casa di produzione Goon Film) di quel grande successo di pubblico e critica che è stato ed è “Lo chiamavano Jeeg Robot”(2015), nonché di “Freaks out” (2021), entrambe pellicole che hanno ricevuto candidature  e trionfi in varie categorie e premi, dai David di Donatello  ( sette per il film del 2015 e sei per quello del 2021), ai Nastri D’argento ( ben tre per “Lo chiamavano Jeeg Robot”).

Il regista romano ha trattato vari argomenti, fra i quali la crisi del cinema nelle sale, sicuramente accentuatasi a seguito delle conseguenze del fenomeno pandemico ma che, secondo Mainetti, si attenua per le grandi produzioni (come Spiderman) che attirano stuoli di spettatori. In Italia, ha aggiunto il regista, purtroppo il declino delle presenze in sala è forte da tempo, ma si considera della categoria di coloro che amano il cinema nelle sale e vogliono fare film destinati ad esse.

Il cinema per il regista, il cui primo corto è stato nel 2003 “Itinerario tra suono e immagine”, può esercitare anche una funzione sociale, spesso confusa con l’autorialità. Esistono autori, ha sostenuto Mainetti, come Elio Petri, che hanno un linguaggio formale molto erudito non riscontrabile in altri, che fa comprendere l’importanza di entrambe le componenti. Ci sono stati registi, come Stanley Kubrick, che non sono stati apprezzati o compresi del tutto perché non percorrevano la strada del cinema sociale mentre, ha sottolineato Mainetti, voleva egli stesso fare un cinema sociale coniugando autorialità e funzione sociale, cercando di penetrare i personaggi, facendoli esprimere con il linguaggio appreso da piccolo, da quello legato ai film di genere a quello studiato all’università ( Mainetti si è laureato con 110 e lode in Storia e Critica del Cinema all’Università degli Studi Roma Tre).

Sulla genesi di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, il creatore del corto “Tiger Boy” (pluripremiato successo del 2011), ha detto come Jeeg Robot fosse un cartone che amava assieme a Mazinga, ed il suo amore per Sam Raimi lo ha spinto a fare un supereroe “nostro”, con un’identità diversa e peculiare, caratterizzandola della sua romanità, senza avere la consapevolezza iniziale di poter mettere d’accordo critica e pubblico. Il risultato é stata una pellicola che ha venduto tanto nel mondo, consentendogli di conoscere in profondità ed in modo diretto realtà cinematografiche internazionali e di alto livello. Mainetti, per realizzare i suoi prodotti, ha studiato a fondo il cinema dei supereroi, che non era necessariamente il suo privilegiato, ispirandosi anche a pellicole come “La Cosa”, La Cosa 2”, “L’Armata delle Tenebre”, “Drag me to Hell”, riuscendo ad ottenere degli ottimi risultati anche nel caso di “Freaks out”, che ha avuto un’accoglienza controversa ma è stato capito dalle generazioni più giovani.

Gabriele Mainetti ha fondato nel 2011 la Goon Films, sua casa di produzione che riceve sceneggiature di ogni tipo ma, come ha affermato, predilige e persegue il percorso del suo tipo di cinematografia, espresso tramite i personaggi di “Freaks out”, tratteggiati da una penna attuale che ha guardato ad un passato drammatico come quello del 1943, con quel 16 ottobre orrendamente macchiato dalla deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma ( il tristemente noto “sabato nero”), con una contemporaneità per la quale i protagonisti del film possono essere considerati attuali eroi popolari. Il regista ha sostenuto di avere fatta propria la lezione di Sergio Leone che non si adagiava sul cinema americano con personaggi che sanno sempre cosa sia giusto o sbagliato, creando invece personalità complesse ed imperfette che trovano il modo di abituarsi l’uno all’altro.

Mainetti, peraltro ottimo interprete di film quali “Il cielo in una stanza” o “Un altr’anno e poi cresco”, ha enfatizzato l’importanza dello studio in ambito cinematografico, in quanto fondamentale per le modalità con cui affrontare il lavoro del cinema, apprendendo dai grandi del passato per poi aggiungere la propria personalità. Come lui ha fatto, con quel tocco peculiare di romanità che protegge la sua voce interiore, con le proprie paure ed emozioni che ispirano l’emotività dei personaggi e le atmosfere delle pellicole.

Relativamente al film che avrebbe voluto dirigere Mainetti ha indicato “Old Boy” di Park Chan-wook (del 2003, non il remake di Spike Lee del 2013), mentre per quanto attiene all’attore con il quale avrebbe voluto lavorare è emerso Marlon Brando, tra i grandi del passato, e Tom Hardy, tra quelli attuali, interprete che secondo Mainetti non è stato valorizzato appieno in “Venom” ed in” Venom2”.

Mainetti ha infine affermato come la trama in un film sia importante ma come il linguaggio formale e tecnico sia di estrema pregnanza (ed egli cerchi la giusta combinazione di entrambi), esemplificando il caso della serie cinematografica “Transformers”, con il primo film che ha un buon connubio tra le due componenti da parte di Michael Bay (come fatto dallo stesso regista anche in “Pain & Gain”), mentre i risultati nelle pellicole seguenti sono di livello meno elevato.

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