Teatro Quirino. Intervista, Matteo Tarasco e la “Trilogia del mito”

In scena al teatro Quirino dal 24 al 26 maggio la “Trilogia del mito”  un progetto di Matteo Tarasco,  il primo e unico regista italiano ad essere nominato Membro del Lincoln Center Theatre Directors Lab (New York City).  Nel dicembre 2006, il Presidente della Repubblica Italiana ha conferito a Matteo Tarasco il Premio Personalità Europea per il Teatro come migliore regista emergente

ROMA – Da oggi a giovedì al teatro Quirino andrà in scena ogni sera una parte della trilogia del mito al femminile ideata e diretta dal regista Matteo Tarasco. Le eroine di Iliade, Odissea e Eneide raccontate da 9 attrici con le parole dei grandi autori classici. 

Nelle note di regia si legge che il vostro progetto racconta “l’assenza dell’eroe”. Cosa intende?

Guardandomi attorno faccio fatica a scorgere eroi nella nostra contemporaneità. Mi domando se non ci siano più o se abbiamo perso gli strumenti per leggerli, raccontarli e comprenderli. Probabilmente vivono accanto a noi o stanno attraversando il mare in questo momento e noi non sappiamo raccontare le loro gesta. È un’assenza pesante, perché ogni civiltà necessita dei propri eroi. Deve riconoscersi in qualcuno che fa il viaggio prima di noi e rischi in prima persona.  Ho scelto di raccontare con parole antiche e moderne, ma con uno sguardo nuovo, il languore di un’assenza. 

Iliade. Le lacrime di Achille”, “Odissea. Nessuno ritorna”, “Eneide. Ciascuno patisce la propria ombra”. Tre titoli apparentemente al negativo. Cosa deve attendersi lo spettatore?

Di ‘commuoversi’, cioè ‘muovere insieme i sentimenti’. Gli antichi dicevano che ‘comprendere’ era un ‘accogliere insieme’ e questo è quello che cerchiamo di fare con il teatro. Le lacrime per gli antichi erano un corroborante strumento di forza. Per l’uomo dell’antichità piangere era segno di forza e anzi un motivo per diventare ancora più forte. Dopo la stagione ottocentesca del Romanticismo l’uomo che piange è visto come debole. In realtà Achille ci insegna che la sua ira lacrimevole, uomo solo che piange sulla riva, dà a lui la forza. Omero, che era un cantore, sceglie di partire dall’ira, perché probabilmente è quello che a lui serviva per raccontarci ‘l’inizio dell’io’. Quando eravamo bambini la prima volta che abbiamo pianto, perché ci mancava qualcosa, abbiamo espresso la nostra identità con le lacrime. Omero ci dive che Achille è il primo che esercita il potere dell’io. È, per così dire un trisavolo di Amleto. Al tempo c’era un “io” collettivo, Omero porta una rivoluzione.

Per quel che riguarda la seconda parte della trilogia, Nessuno ritorna, voglio dire che, appunto, nessuno ritorna perché quando ritorna a casa non è più un eroe. In scena non ci sarà infatti Penelope, la moglie che attendeva in patria Ulisse, ma soltanto Circe, Calipso e Nausicaa, le donne che durante il suo viaggio lo hanno amato, incontrato, hanno subito le sue violenze.  A mio avviso Ulisse è un personaggio fortemente negativo, una sorta di stupratore di anime, pieno di mostri dentro. Ha la mente colorata, ma il cuore nero.

L’assenza dell’eroe è anche un’assenza dell’uomo. Ci sono 9 attrici in scena, nessun personaggio maschile. Una trilogia del mito al femminile la definisce infatti. Perché?

Penso che il punto di vista femminile sia uno strumento di conoscenza dell’oggi più profondo e più attento. Facciamo parlare personaggi che solitamente non hanno parola nelle epopee. 

La scelta del femminile è necessaria perché da un centinaio di anni le donne hanno fatto grandi passi nella riscrittura della propria identità sociale e personale. Quindi rappresentano un suono nuovo. Sono più capaci di leggere i segni, per quanto confusi, che il mondo ci offre. Per citare una delle frasi bellissime che dice Virgilio: “È l’amore della donna che fa l’uomo”.

Omero, Virgilio, Quinto Smirneo, Marlowe, Kleist McCollough, Atwood. È stato difficile mettere insieme tutti questi autori?

Userò una metafora pop. Se ti dicono che fai una partita in spiaggia d’estate con Pelé e Maradona segniamo tutti. Giocare con persone che palleggiano la parola, per mantenere la metafora, in una maniera sublime è un piacere, non è difficile. Li ho fatti dialogare tra loro all’interno dei modelli che le attrici straordinarie che lavorano con me reciteranno al Quirino da questa sera. 

Rifiuta la drammaturgia contemporanea?

Ci sono alcuni autori contemporanei che mi piacciono molto, mi turbano, mi sconvolgono. Generalmente non sono italiani purtroppo. Viviamo in una società teatrale che non aiuta lo sviluppo della nuova drammaturgia. Io ho avuto la fortuna di lavorare a Londra, dove al Royal Court debuttano drammaturghi di 19 anni. Ci sono le nuove generazioni che sono molto avanti. Penso a Polly Stenham, per esempio, che è una grandissima scrittrice. Lì chi vuole diventare autore teatrale, fin dalle scuole medie, può andare al doposcuola letterario del Royal Court. In Italia se anche esiste un giovane grande autore di teatro in questo momento, non abbiamo gli strumenti per saperlo. Qui non possiamo coltivare il talento, ma sono molto favorevole a raccontare l’oggi con le parole dell’oggi. Anzi è un appello. Scrivete per il teatro.

Un’avvertenza importante per lo spettatore?

Gli antichi avevano come punto di riferimento la gloria. La gloria nasceva dall’ascolto. L’ascolto genera immortalità. Il teatro ci può riconnettere alla funzione sociale dell’ascolto. Chi verrà a guardarci e ad ascoltarci potrà toccare insieme a noi un po’ di quest’immortalità. 

   

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