Oliver Stone e l’America dell’incertezza

Una fortunata coincidenza ha voluto che i settant’anni del grande Oliver Stone coincidessero con il quindicesimo anniversario della tragedia dell’11 settembre, peraltro raccontata proprio da Stone in “World Trade Center”, a ulteriore dimostrazione del valore, umano e artistico, di uno dei cineasti americani più noti e apprezzati al mondo.

Perché Oliver Stone, newyorkese di nascita che il prossimo 15 settembre raggiungerà l’importante traguardo poc’anzi enunciato, anarchico dichiarato, convinto sostenitore di Obama e del Partito Democratico ma, al tempo stesso, di Fidel Castro, dello scomparso Hugo Chávez e di alcuni esperimenti socialisti dell’America Latina, questo narratore poliedrico e irregolare della storia statunitense costituisce l’indispensabile stecca nel coro del conformismo imperante e delle verità ufficiali.
Stone, infatti, è un personaggio avvezzo a dire ciò che pensa e, spesso, a svelare, o per meglio dire a ricordare al grande pubblico, tutti quei dettagli che il potere vorrebbe che restassero nascosti, ad esempio accreditando la tesi secondo cui Kennedy non sarebbe stato assassinato dal solo Lee Harvey Oswald ma sarebbe stato, al contrario, vittima di un complotto ordito ben più in alto o devastando quel po’ che rimaneva della già pessima reputazione di Bush con il film “W.”.
Senza dimenticare “Wall Street” e il suo remake “Wall Street – Il denaro non dorme mai”: due denunce strazianti, a ventitré anni di distanza l’una dall’altra, sui mali e i lati oscuri della finanza; interessanti in quanto molto documentate e, soprattutto, perché uscite in due periodi completamente diversi: nell’87, all’apice della filosofia reaganiana, con il suo edonismo e l’idolatria nei confronti del libero mercato a caratterizzare l’intera società americana, e nel 2010, con Obama alla Casa Bianca già da due anni e la crisi più devastante dalla Grande Depressione del ’29 in pieno svolgimento. 
Il culmine e il declino di un mondo e di un modo di pensare e di intendere la vita, la denuncia di una devastazione morale, economica e, di conseguenza, politica che ha posto fine al “secolo americano” e aperto una tragica ferita nel cuore profondo della Nazione, all’insegna della paura, dell’incertezza e della mancanza di fiducia nel futuro. 

Al che, vien da chiedersi se Stone abbia già in mente un film sugli otto anni di Obama, magari mettendo al centro il tema del razzismo, delle disuguaglianze e delle conquiste sociali e civili raggiunte, sottolineando i molti aspetti positivi di una presidenza senz’altro all’altezza delle difficoltà venutesi a creare in questi anni ma senza dimenticare i molteplici aspetti negativi cui nemmeno il primo presidente afro-americano, col suo carico di innovazione, progresso e slancio vitale, è stato in grado di far fronte.

Ciò che è certo è che difficilmente Stone mancherà di dire la sua sulla drammatica fase che sta attraversando la politica e la società americana in questo periodo d’attesa, stretto nella morsa fra la possibile ascesa di un bancarottiere multimilionario e senza alcuno scrupolo, palesemente inadeguato al ruolo e foriero di probabili disastri, e l’affermazione di una donna di potere che con la finanza speculativa, i suoi interessi e le sue pretese anti-sociali ci è andata a braccetto per anni, fino a trasformarsi in una sorta di Lady Terza via, emblema della deriva della sinistra, del suo fallimento e della sua sconfitta culturale, vittima dell’egemonia esercitata dagli avversari per almeno tre decenni. 
Un’America fragile, in guerra con se stessa, in preda alle sue paure e ai suoi tormenti, sottoposta al comprensibile stress dovuto alla barbarie bellica e post-bellica cui l’ha sottoposta Bush con le sue guerre e le sue esagerazioni, il suo unilateralismo e il degrado morale cui i suoi otto anni alla Casa Bianca hanno sottoposto l’intero Occidente.

Un’America che non si è ancora liberata dei fantasmi dell’11 settembre, che non è ancora entrata nel Terzo millennio, che si dimena fra lo sguardo al futuro delle sue nuove generazioni, attratte dal socialismo scandinavo di Sanders, e il conservatorismo bieco della sua classe media impoverita che si aggrappa all’isolazionismo e alle promesse irrealizzabili di Trump, tutte volte alla riconquista di una grandezza impossibile e fuori dal mondo nel contesto di un assetto di potere ormai multipolare e non più riconducibile al bipolarismo dei decenni che hanno preceduto la caduta del Muro di Berlino. 
Un’America che ricorda, cerca di trovare un ruolo nel mondo attuale e resiste faticosamente agli effetti nefasti di questa globalizzazione senza regole che essa stessa ha a lungo, colpevolmente, incentivato ed esaltato per voce di alcuni dei suoi maggiori intellettuali.

Un’America resiliente e, al tempo stesso, stremata che, dopo otto anni di presidenza Obama, si scopre migliore sotto alcuni punti di vista e debolissima per quanto riguarda il tessuto sociale, ulteriormente fiaccato dal rinvigorirsi di una questione razziale che non era così sentita e decisiva dagli anni delle marce del reverendo King.

Un’America che sembra davvero uscita, oggi più che mai, da un film di Oliver Stone, al punto che viene in mente la frase finale di Chris, il protagonista di “Platoon”: “Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico… abbiamo combattuto contro noi stessi. E il nemico era dentro di noi. Per me adesso la guerra è finita, ma sino alla fine dei miei giorni resterà sempre con me. Come sono sicuro che ci resterà Elias, che si è battuto contro Barnes per quello che Rhah ha chiamato: il possesso della mia anima. Qualche volta mi sono sentito come il figlio di quei due padri. Ma sia quel che sia… quelli che tra noi l’hanno scampata, hanno l’obbligo di ricominciare a costruire. Insegnare agli altri ciò che sappiamo e tentare con quel che rimane delle nostre vite di cercare la bontà e un significato in questa esistenza”.

Quindici anni dopo, purtroppo, è proprio il senso dello stare insieme che manca in quest’America in cerca di un destino, e la sfida infernale fra un populismo d’élite e un elitarismo ostentato con orgoglio per decadi e travestito per l’occasione da attenzione agli ultimi, ossia tra due inganni particolarmente fastidiosi e assai poco credibili, ne è l’inevitabile conseguenza.

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