L’intervista. Walter Pagliaro e il “Pellicano” di Strindberg

Tona in scena dopo trent’anni, grazie a Walter Pagliaro, al teatro Palladium di Roma, “Il Pellicano” di August Strindberg. Il regista: “Ho cercato di restituire la visionarietà dell’autore”

Ci eravamo lasciati con “Alla meta” di Thomas Bernhard un anno fa, mentre il 21 febbraio al Palladium andrà in scena “Il pellicano” di Strindberg da lei diretto. Un’altra madre durissima. Come mai la scelta di questo testo?

Nasce dalla volontà di scandagliare le viscere della famiglia, che è il luogo geometrico di tante assurdità della nostra vita, quel luogo dove covano le responsabilità maggiori nella formazione dell’individuo. Così è naturale percorrere queste strade. E poi tutto deriva dal desiderio di affrontare testi che non siano troppo conosciuti. Perché io continuo a credere che il nostro lavoro sia rendere noti drammi poco frequentati e che sia sempre opportuno tentare di incontrare il pubblico su terreni più insidiosi, più vischiosi. D’altronde è questa la funzione del teatro. 

Nella mia vita ho fatto pochissimo e nulla Pirandello e Goldoni, per esempio. Questa è una scelta di campo. Non è che io non ami questi scrittori straordinari. Ma li fanno tutti, molti anche bene. Cerco altre strade. “Il pellicano” è un testo che da 30 anni non viene rappresentato in Italia.

Questo dramma appartiene al secondo periodo di Strindberg, il periodo simbolista…

Sì, siamo proprio nello Strindberg degli ultimi anni, perché scrive “Il pellicano” nel 1907, insieme ad altri quattro drammi da camera per l’Intima Teater di Stoccolma. Nel 1912 muore. In questi drammi da camera c’è la summa del suo pensiero sul teatro e negli stessi mesi egli scrive degli appunti agli attori del Teatro Intimo. 

“Il pellicano” è il terzo titolo che egli trova per questo dramma. 

Prima aveva scelto “I sonnambuli”, perché tutta la pièce è un lungo risveglio: dal sonno della ragione fino alla consapevolezza delle azioni compiute. 

Il secondo titolo che è stato in gestazione per lungo tempo è “Purgatorio”, poiché in questo periodo è molto suggestionato dalle teorie di un mistico svedese, barocco, che si chiama Emanuel Swedenborg, i cui scritti Strindberg ha conosciuto per caso, passando attraverso Balzac, che l’aveva citato nel romanzo Séraphîta. Questo mistico svedese suggerisce l’idea che la nostra vita in realtà non sia altro che un purgatorio e che quello che noi stiamo facendo appartiene a un periodo di correzione della nostra esistenza, delle nostre inclinazioni, prima di saltare verso l’arcipelago dei morti, che un poco vagheggia quel meraviglioso arcipelago di Stoccolma. 

Finalmente approda a “Il pellicano”, certamente una figura cristologica: un animale di cui si parla già nel vecchio testamento e poi è sfiorato dalla letteratura, da Dante, da Shakespeare. Ma qui Strindberg lo adopera con tecnica ironica, perché mentre il pellicano, nella leggenda, pareva donare il proprio sangue per il nutrimento dei suoi figli, in realtà qui è riferito a una madre che fa tutt’altro, e che anzi cerca di vampirizzare i propri figli per il suo benessere.

Lei è un regista di grande esperienza, ma anche un intellettuale. Come si prepara quando deve affrontare un testo e la sua messa in scena? 

Mi piace approfondire, quando ne ho la possibilità. Impiego molto tempo e penso che questo sia uno dei momenti più belli che la mia professione possa avere. Non credo nell’improvvisazione, nelle cose fatte a caso, ci sto male dentro. 

Al “Pellicano” io ho lavorato un anno solare. Perché ho letto tutte le cose che Strindberg ha scritto, le sue autobiografie, i testi, ho studiato le altre messe in scena. 

Sono partito per Stoccolma per visitare il suo Teatro Intimo e la sua ultima casa. Ho cercato di assaporare, di entrare lentamente, progressivamente, nel profondo di un autore, per tentare di restituirne una verità possibile. A volte si riesce, a volte no. 

Il mio cammino è stato lungo, è passato attraverso un periodo di esercitazione con alcuni studenti che avevano vinto un concorso della Comunità Europea e insieme ai quali ho lavorato due mesi a Bologna su “Il sogno”di Strindberg. 

Io cerco di fare i miei passi con serietà, perché così mi piace.

Questo suo scavo nella biografia e nei luoghi ha avuto una ricaduta sulla messa in scena?

Senz’altro. Mi permetto di suggerire un piccolo invito: chiunque possa recarsi a Stoccolma, vada a visitare questo Teatro Intimo, che esiste ancora, quasi intatto, salvo gli interventi sulla sicurezza. È un luogo significativo e fa comprendere il senso di una tale scrittura, soprattutto dei “Drammi da camera”. 

Il teatro è molto piccolo, ha 161 posti, un palcoscenico di quattro metri di profondità per sei. Tra l’altro, sul boccascena, c’è da una parte “L’isola dei vivi”e dall’altra “L’isola dei morti” di Böcklin, nel mezzo il palcoscenico. Quindi davvero viene suggerita questa idea che ogni rappresentazione teatrale sia in realtà un viaggio dalla vita alla morte. Questo è abbastanza evidente nello spettacolo che ho cercato di mettere in scena. 

Micaela Esdra interpreterà la madre. Il vostro è un sodalizio forte…

Noi lavoriamo insieme da 30 anni. Micaela è un’attrice straordinaria e bravissima, ma anche molto esigente. Le prove sono piene di spunti e di asperità, perché né lei né io siamo mai paghi. Qualche volta si finisce per essere nervosi, ma tutto questo è molto creativo e se continuiamo da tanto tempo a lavorare insieme, attraversando anche testi difficilissimi, dei viaggi tormentosi, vuol dire che c’è qualcosa di solido e valido sul piano artistico, una comunione di idee e linguaggi. 

Ha cercato una messa in scena filologica o ha dato una linea interpretativa decisa?

Ho molto rispetto per la filologia e, naturalmente, anche in questo caso, sono partito dal testo e gli sono rimasto fedele. Perché ritengo che la via maestra del teatro sia la parola, anche se rispetto ogni altra esperienza e la giudico sempre interessante. 

Nello stesso tempo, però, un regista contemporaneo deve raccontare aspetti che riguardano il nostro presente. I testi si inverano se riescono a graffiare, ad arpionare il presente o addirittura il futuro. 

Penso che il nostro non sia stato assolutamente un lavoro naturalistico di trasposizione scenica, ma anzi ho cercato di assecondare la vocazione visionaria di questo autore. Lo spettacolo è anche un poco come un sogno. A un certo punto, scherzando, Strindberg, in una delle sue biografie ha scritto: “Sogno dunque sono”. Questo è anche il suo approdo al pensiero barocco. C’è sempre stata una diatriba: considerare Strindberg espressionista o barocco? Io ritengo che egli sia in realtà un autore barocco. I suoi drammi assomigliano tanto agli Autos Sacramentales del Sei-Settecento, perché sono anche un cammino, un percorso, un voyage in cui bisogna attraversare varie stazioni: questo è tipico del dramma barocco e diventerà anche un canone dello Stationendrama del Novecento. 

Io credo di essere partito dalla profonda verità, dall’autenticità di questo autore, e poi di essermi imbarcato anch’io per la mia Citera, tentando di comprendere e di lanciare dei segnali.

Lei ha lavorato per dieci anni accanto a Strehler. Che eredità le ha lasciato?

Credo di essere stato fortunato nella mia vita, perché ho avuto sempre dei Maestri straordinari. 

In Accademia ho lavorato con Orazio Costa e poi con Luca Ronconi. Dopo l’Accademia ho capito che dovevo rivolgermi a un grande Maestro del Teatro e sono andato da Strehler. 

Ho vissuto con lui anni meravigliosi, abbiamo avuto un rapporto pieno di rispetto, di stima – da parte sua, perché da parte mia c’era una devozione totale. 

Il suo insegnamento è stato una grande lezione pratica di teatro, quell’idea di risolvere sempre in palcoscenico i problemi. 

Sono 20 anni che egli è morto e non mi stanco mai di pensare a quello che lui faceva in palcoscenico con gli attori, con i tecnici, con le scene. 

Finché è stato in vita, anche quando è iniziata la mia carriera autonoma, affrontando dei testi impegnativi, ogni tanto lo chiamavo e chiedevo: “Ma lei che farebbe?”. Lui qualche volta era contento di rispondermi, a volte non aveva voglia, ma offriva sempre riflessioni talmente pregnanti, folgoranti, che mi aiutavano. 

Ora lui non c’è più da tanto tempo, ma io non posso fare a meno, quando mi trovo a prendere decisioni importanti, di fare riferimento a lui. Strehler è una chiave decisiva del teatro, perché ha fatto capire come il lavoro di palcoscenico sia fondamentale e illimitato nelle sue potenzialità, nelle sue possibilità: bisogna scandagliarne gli ambiti più remoti, perché da lì arrivano suggerimenti, suggestioni. 

      

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