Teatro Duse. “Le Baccanti”, talenti diretti con mano divina.

ROMA – Si devono essere incontrati da qualche parte, conosciuti, innamorati. Li immagino un pomeriggio a chiacchierare insieme, Emma Dante e il dio Dioniso, il dio del teatro, come in un racconto di Esiodo, a ridere, a degustare vino e pensieri, a creare. 

Che il loro fosse un rapporto privilegiato lo sapevamo, ma il Saggio di Diploma del corso di recitazione dell’Accademia Nazionale Silvio D’Amico, Studio da Le baccanti di Euripide, andato in scena, appunto con la regia della Dante, al Teatro Eleonora Duse di Roma, dal 18 al 29 ottobre scorso, conferma questo legame profondo tra la regista e il Bromio, se mai confermarlo fosse stato necessario. La tragedia più ambigua, una delle più controverse della produzione classica a noi giunta, diventa così banco di prova, quasi rito iniziatico per venti giovani interpreti, la cui speciale vitalità, i cui eterogenei, guizzanti talenti sono diretti con mano ferma, verrebbe da dire divina, da Emma. Il piccolo palco del teatrino di via Vittoria, vestito alle pareti con un crêpe lucente, capace di respirare e farsi organismo scenico, assume, grazie all’energia dei giovani attori, al travolgente, millimetrico disegno registico, alla compatta sintonia delle voci e dei corpi, la dimensione cultuale propria della tragedia classica. A distanza di oltre ventiquattro secoli, in un’estensione culturale e geografica e spaziale del tutto diversa, la scena torna luogo del sacro, manifestazione del divino, proprio come quando, per prendere avvio, il rito del teatro doveva essere preceduto dai dovuti sacrifici.

In questa atmosfera vediamo comparire lo straniero delle “Baccanti”, il dio mascherato, Dioniso, regista interno della tragedia. Non per quel complesso meccanismo di distribuzioni delle parti che caratterizza le esperienze laboratoriali all’interno di una scuola di recitazione, ma piuttosto per un’accorta scelta interpretativa, lo straniero, nelle cui fattezze si nasconde il dio della doppiezza, viene declinato sulla scena nella sua dimensione maschile e femminile (thêlumorfos, “di aspetto femmineo) da un convinto e convincente Paolo Marconi e da un’incisiva Grazia Capraro, che riescono a recitare lunghe tirate all’unisono. Protagonisti sono quel linguaggio carnale inventato da Emma Dante, la sua grammatica dei corpi, la poesia della tensione muscolare, del tremito, della scomposizione espressiva del gesto. 

Tiresia, un – alla lettera – eccezionale Gabriele Cicirello, è un’epifania giocata su un filo sottile, in cui lo spettatore vorrebbe quasi sorridere e forse lo fa, ma negli occhi rigirati, nel fragile corpo che sembra tenuto insieme dalla sottoveste rosa tenue, nell’andatura tirata, di fronte a quella concentrazione di energie rattenute, prova uno spaurimento, qualcosa che forse corrisponde al fobos di cui parla Aristotele nella Poetica. La forza profetica è prima di tutto nel suo modo di attraversare lo spazio, percorrendo linee, geometrie che sembrano il prodotto della cecità, ma si rivelano, piuttosto, una coreografia della mente divinatrice. Sulle parole “ma è un profeta, questo essere divino”, Tiresia sembra riacquistare per un momento la vista, come chi abbia avuto accesso a quella visione di cui gli iniziati ai misteri – coloro appunto che avevano visto – potevano godere. 

Giacché “coppia di uomini con i capelli bianchi, ma coppia che danza”, accanto all’indovino c’è il vecchio Cadmo, le cui braccia che si agitano sono il semantema dell’invasamento dionisiaco. A dargli voce e soprattutto movimento è Angelo Galdi, che, con intelligenza espressiva, sa restituire al personaggio colpito dalla manìa divina quegli aspetti di primitivo ritorno allo stato di natura e disegna sul volto dello spettatore un sorriso che non perde tuttavia i turbamenti e il senso religioso di cui è pervasa la scena. Questa religiosità raggiunge il suo zenit nella perfezione dei movimenti scenici dei cori – e il plauso va anche Sandro Maria Campagna che ha collaborato con Emma e gli allievi – nella polifonia delle inappuntabili esecuzioni vocali, alla cui realizzazione ha contribuito Serena Ganci, in un nitido contesto di scene e di luci, che ha visto l’apporto rispettivo di Carmine Maringola e Cristian Zucaro. 

Ecco che il rito del teatro, con il rigore della ripetizione, dell’esercizio, dello studio, conquista il valore del rito sacro.  Emma Dante diviene ministro di un’iniziazione per questi giovani professionisti della scena, proprio come Dioniso, è per loro una guida, assurge a un ruolo sciamanico, tra umano e divino, li traghetta dalla dimensione dell’allievo attore a quella del professionismo, in cui nulla è lasciato al caso, ma tutto passa attraverso un’elaborazione tecnica, rituale, in cui la ricchezza di ciascuno, quale che sia, viene trasformata in arte. Ed è la ragione per cui, in questo caso, sarebbe giusto abbandonare quella formula cautelativa che definisce questo spettacolo così compiuto un semplice Studio, se non fosse che la parola latina studium significa “cura, zelo”, significa “amore, ardore, passione”, tutto quello che queste attrici, questi attori hanno dimostrato di avere. La definizione “saggio”, invece, eliminiamola pure: il loro è spettacolo, o meglio “theama” e “drama”. Emma Dante può sorprendere con le sue scelte, è un’artista capace di suscitare ire e invidie; a volte, non qui, fa i suoi errori, come è bene che avvenga in ogni vero percorso di ricerca, ma sminuire – è stato fatto ripetutamente – la grandezza e la ricchezza di questa regista che le scene straniere guardano con ammirazione è un atto di autolesionismo patrio che dovremmo davvero risparmiarci. 

Certo potrebbe sembrare azzardata, ai più, la scelta di far ballare i due stranieri/Dioniso sotto le luci stroboscopiche mentre a tutto volume va “Amore disperato” di Nada, eppure questo accostamento genera interpretazione, produce riflessione, arricchimento. Quella ricerca della trance da discoteca che ha caratterizzato gli ultimi decenni non è stato forse un tentativo, più o meno riuscito, più o meno maldestro, di canalizzare istinti ed energie, in una società che, al contrario di quella greca antica, ha faticato e fatica ad accogliere certi aspetti dell’umano? “Le baccanti, ci spiegava Dodds, rappresentano “l’ingresso di una nuova religione nell’Ellade”, ma esse sono, più in generale, il rapporto del noto con l’ignoto, dell’unità con l’alterità, della civiltà con la natura. Emma Dante di tutto questo è consapevole, in ogni caso, lo percepisce con la sua sensibilità, con il suo patrimonio di istinti e memorie. 

Quando Penteo, col ribollente talento di Michele Ragno, si trasforma nel sacerdote di una chiesa e cammina con i suoi pantaloni rosa shocking su una guida rosa shocking e ha un grande crocifisso dietro di sé, quando viene, più tardi, sollevato da quattro compagni, che lo portano in processione con quell’andatura ad ambio sotto cui ci sembra di sentire i tamburi di una banda, il richiamo a uno scontro tra una dottrina religiosa tradizionale e una visione diversamente sacra della vita appare evidente e rispecchia alcune posizioni che vivono all’interno della società e delle stesse religioni. L’incapacità di accogliere aspetti di noi, dell’altro, produce conflitto. Avviene di pagarne le conseguenze, altrove, a Ippolito che rifiuta Afrodite, avviene, qui, a Penteo che respinge il nuovo dio, Dioniso, i suoi riti. 

La forza di questo spettacolo risiede anche nella capacità con cui Emma Dante è riuscita a rendere il coro centrale, nonostante le caratteristiche individuali e le non semplici dinamiche interne a un gruppo. Chi interpreta un singolo personaggio inevitabilmente si nota, ma qui si nota forse anche di più chi è in grado di farsi corpo unico con gli altri, nei ritmi matematici di alcuni spostamenti corali, nelle diverse modalità di passo che la Dante inventa a partire dal lavoro quotidiano con gli attori, nella sincronia geometrica di vocalizzi e azioni fisiche. A volte è richiesto agli attori di assumere movenze di animali e potrebbero apparire, nel loro invasamento che li riporta vicino alla selvatichezza, uccelli, forse persino galline. Quando Penteo viene ucciso, la testa dell’empio sovrano passa con fluidità tra le mani delle Baccanti, che con un gioco gestuale ci danno l’immagine dell’uomo che agita le braccia mentre soccombe alla furia delle donne. 

Questo spettacolo è uno scorcio di speranza ed è anche l’incontro tra la sacerdotessa della drammaturgia fisica e uno dei maggiori classici del teatro, Euripide, nella memorabile traduzione di Edoardo Sanguineti. Non è un caso che, a volte, ma non di rado, quando l’attore parla, il suo corpo si blocchi, quasi che la parola fosse una tensione capace di attraversare l’organismo e fermare il moto, perché i due sistemi espressivi, quello fisico e quello verbale, rischierebbero, altrimenti, di divenire ridondanti.  Questa dialettica tra carnalità della parola e semantica corporea è un equilibrio alto e difficilissimo, un viaggio attraverso cui Emma ha condotto gli spettatori e i giovani attori dell’Accademia Nazionale Silvio d’Amico diretta da Daniela Bortignoni, un viaggio importante, pericoloso, potente, un viaggio da cui non si torna uguali. 

Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”

Saggio di diploma del Corso di Recitazione 

studio da

LE BACCANTI

di EURIPIDE

Regia 

EMMA DANTE 

andato in scena al

Teatro Studio ‘Eleonora Duse’ – Via Vittoria, 6 ROMA

18 – 29 ottobre  2017 – ore 21 –  domenica ore 18:00

Interpreti: Carmelo Alù, Grazia Capraro, Marco Celli, Irene Ciani, Gabriele Cicirello, Renato Civello, Jessica Cortini, Francesco Cotroneo, Eugenia Faustini, Angelo Galdi, Alice Generali, Adalgisa Manfrida, Paolo Marconi, Eugenio Mastrandrea, Elisa Novembrini, Michele Ragno, Riccardo Ricobello, Camilla Tagliaferri, Luca Vassos, Barbara Venturato.

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