Pesaro film fest 57. Pedro Armocida intervista il critico di punta Paolo Mereghetti

PESARO – La Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro negli ultimi anni sta cercando non solo di esplorare le direzioni che sta prendendo il “nuovo” cinema, ma anche di ricollegarsi con chi di cinema scrive e pensa: critici, studiosi, programmatori, curatori.

In questo senso è stata sicuramente una serata speciale quella di ieri, quando sul palco di Piazza del Popolo è salito Paolo Mereghetti, firma di punta del “Corriere della Sera” e autore del dizionario di cinema che da lui prende il nome, oramai diventato una vera e propria bibbia per tanti cinefili del nostro Paese.

Intervistato sul palco dal Direttore della Mostra Pedro Armocida, Mereghetti era al festival per presentare uno dei suoi film che “aprono il cuore”, ovvero Midnight in Paris di Woody Allen, poi proiettato in Piazza. Secondo il critico, non si tratta del film più bello della storia del cinema, e neppure del migliore all’interno della filmografia dell’autore newyorkese, tuttavia è uno di quelle rare opere che, mettendo da parte il mero giudizio critico, hanno toccato in lui corde emotive particolari. Mereghetti ha spiegato come durante il lockdown abbia riscoperto il piacere di quello che ha definito un “cinema limpido”, ovvero quei film che in maniera solo apparentemente semplice e lineare riescono a raccontare una storia nella sua purezza. In particolare ha citato Un uomo tranquillo di John Ford, film che ha rivisto periodicamente e da aggiungere alla lista delle opere del cuore. In questo senso ha spiegato anche la scelta di Midnight in Paris, con la sua capacità di mescolare lo sguardo malinconico sulla vita alla giocosità nell’affrontarla, a cui si sommano la rappresentazione di una Parigi inizialmente da cartolina che poi si anima per essere raccontata attraverso i suoi personaggi e la divertita ricostruzione della Parigi degli anni ’20, con una serie di artisti a cui il critico è particolarmente affezionato.

Il critico ha infine ricordato la sua esperienza di giovane cinefilo “arrabbiato” all’inizio degli anni ’70 alle prime edizioni della Mostra, dove ha conosciuto numerosi registi del “nuovo” cinema, invisibili altrove. Mereghetti lo ha definito un festival che gli ha permesso di “aprire la testa” in nuove direzioni critiche, affermando che Pesaro è stato uno dei primi a ragionare sulla Storia del cinema, arrivando a scardinare molti preconcetti, a partire da quelli sul cinema italiano. Il critico ha poi concluso dicendo che la Mostra è stata uno dei pochi festival che “ti insegnano a vedere”, un complimento che il Direttore Armocida ha ricevuto onorato.

Nella mattinata, invece, si è svolto il primo degli incontri con i registi del Concorso che hanno potuto così confrontarsi con il pubblico di Pesaro, riaffermando uno dei punti fermi della Mostra, pur con le limitazioni del collegamento da remoto a cui sono costretti molti dei registi.

Il primo a intervenire è stato Mouaad el Salem, che ha parlato del suo corto This Day Won’t Last, una storia connotata da una valenza intimista e autobiografica riguardante la produzione dei materiali fotografici. Questi scatti sono infatti per il regista un mezzo di evasione da una realtà sociale e religiosa che reprime l’omosessualità. Allo stesso modo, però, «il film non parla solo di me, ma di tutti gli omosessuali tunisini» come viene espresso dalla sua scelta di non mostrare il volto «permettendo di dare voce a tutti gli omosessuali che vivono la mia stessa condizione». The Nightwalk di Adriano Valerio è invece un’opera figlia del contesto pandemico, in quanto la regia del film è stata realizzata da remoto, durante il periodo di lockdown. Oltre a questa peculiarità, il regista ha voluto dare voce ad una situazione di stress e costrizione vissuta da un suo amico (co-autore del corto), che si è trovato a vivere per caso a Pechino in quel periodo e che nell’opera intraprende una sorta di percorso di terapia che si riflette sia sull’autore che sullo spettatore attraverso il riutilizzo di materiali filmici: «È stato un film che mi è arrivato addosso. Non credevo di fare un film sul tema, ma quando mi è stata raccontata questa storia ne ho sentito la necessità».

Xacio Baño in Deep Water è tornato invece a confrontarsi con il tema della trasposizione di lettere e foto in immagini in movimento, come nel suo precedente lavoro Eco. Il regista è partito da una ricerca di archivio su alcune lettere e fotografie appartenenti a un soldato, che mostrano come in brevissimo tempo dalla paura di un ragazzo di diciassette anni si arrivi alla volontà di combattere di un uomo diventato ormai soldato. Il corto si sviluppa attraverso una metafora marina, mostrando delle forme di vita che sopravvivono grazie a particolari batteri che emettono luce e che ne permettono la riproduzione e il sostentamento. Attraverso questa metafora il regista ha mostrato come il montaggio permetta di dare nuova vita a materiali che possono sembrare statici: «Mi interessa molto la forma e per questo ho voluto raccontare la sfida che c’è nell’utilizzare in maniera cinematografica la parola scritta che è statica, al contrario delle immagini».

L’ultimo a intervenire è stato l’argentino Nicolás Zukerfeld, regista e docente che attraverso il suo There are not thirty-six ways of showing a man getting on a horse ha messo in scena il lato ludico e maniacale della ricerca accademica: «questo film è la manifestazione di questo dialogo che esiste tra le due parti». L’opera dimostra come si possa entrare in vicoli ciechi che difficilmente riescono ad essere risolti attraverso la ricerca, ma che allo stesso modo si rivelano significativi per stimolare una conversazione sulle pratiche consolidate del cinema classico attraverso la messa in scena della ripetizione e della variazione seppur minima delle inquadrature.

Infine, sempre in mattinata, è stato presentato il nuovo libro di Christian Uva, intitolato l’ultima spiaggia: Rive e derive del cinema italiano, edito da Marsilio. Concentrandosi su un periodo che va dagli anni ’30 agli anni ’80, lo studioso ha tracciato una storia culturale del cinema italiano attraverso uno dei suoi topoi più importanti, la spiaggia, «luogo mediano tra l’entroterra e l’infinito del mare, di libertà ed emancipazione […] regressione quanto trasgressione». Ha indagato così sul ruolo centrale – ma poco trattato – che la spiaggia ha avuto nella rappresentazione del costume e dell’identità nazionale. In questo senso, l’autore ne ha riaffermato l’importanza anche per comprendere in che modo sia mutata la costruzione e la rappresentazione dei generi maschile e femminile all’interno del cinema italiano.

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