“Mumble mumble 2” Lo spettacolo scritto e interpretato da Emanuele Salce evidenzia la rara capacità di mettersi a nudo con autoironia

Rimuginare e scavare in un passato scomodo ritemprandolo di sarcasmo, irrisione, dileggio ed esternando con nonchalance i propri complessi, le emozioni, l’io più intimo crocifiggendolo in più tappe è un’operazione azzardata, prima ancora che sporadica, e se ben congegnata, incanta.

Emanuele Salce il suo personaggio teatrale, che fa da specchio alla sua anima prima ancora che al mattatore in scena, se l’è saputo costruire di sana pianta ispirandosi alla sua inconfessata condizione di inadeguatezza, proprio come recita il sottotitolo del suo nuovo monologo.

Approdato su alcuni palcoscenici teatrali d’Italia è infatti “Mumble mumble 2”, il seguito del suo soliloquio dove raccontava episodi esistenziali tratti dalle sue insicurezze adolescenziali e post, barcamenandosi tra due padri importanti, Luciano Salce e Vittorio Gassman, che sua madre, Diletta D’Andrea, sposò rispettivamente in prime e seconde nozze. Il proseguio che qui ci presenta – sebbene arduo sia replicare un successo acclamato come si dimostrò l’esperimento di qualche anno fa – è un’operazione di stile incentrata sull’autoironia che sapientemente il protagonista riesce a calibrare in una psicoanalisi da copione nel quale il gioco di mimica, scatti, silenzi, timbri vocali e scambi di battute ritmate con il suo compagno di scena (l’efficacissimo Paolo Giommarelli già presente nella precedente “puntata”), si compone armoniosamente di scena in scena, legato da una orchestrazione narrativa capace, nella straordinaria capacità affabulatoria di Salce, di stimolare una partecipazione dello spettatore “al secondo”, tra il trattenere il fiato e sbottare in sorrisi e risate genuine.

Comicità di situazione ma anche immaginazione ed elaborazione di un percorso soggettivo che affonda le sue origini in una dichiarata insicurezza personale di gioventù tanto nei rapporti sentimentali e “pratici” con l’altro sesso quanto nell’approccio col mondo professionale del lavoro (in questo caso il teatro).

 

Se ci fidiamo della microanalisi introspettiva dei fatti raccontati – dall’esplosione di una lunga storia d’amore con la ragazza australiana, già evocata nella pièce precedente, all’implosione della depressione che lo induce a recitare per motivi terapeutici e suicidi – storie esilaranti condite di pathos che inducono a compassione o immedesimazione (a seconda del grado di sensibilità personale) il fruitore, d’altra parte rimaniamo affascinati dall’irresistibile modo di sintetizzare personalissime scene di vita familiare che in una sola frase, motto di spirito, gesto o ammiccamento ci descrivono interminabili (almeno nella sua mente) piano-sequenza cinematografici, da lui vissuti con angoscia e panico: un esempio fra tutti la presentazione della sua “amica” all’intera famiglia Gassman alla vigilia di Natale, dove il gioco delle parti si infila in una commedia degli equivoci riprodotta a livello magistrale.

La sintesi, appunto, insieme al coraggio di uno svuotamento di se stesso attraverso la chiave dell’umorismo, è sicuramente la primaria dote naturale dell’autore, che sicuramente ci prova gusto a prendersi in giro, ma che per farlo ci prende per mano trascinandoci in un vortice esistenziale ricco di spunti letterari e filosofici (lo stesso Montale ispira con alcuni suoi versi un rap psicoanalitico) e dove la serenità e la sicurezza dell’io si raggiunge varcando il fiume dell’incerto, ovverosia cambiando le proprie abitudini, superando gli argini della bolla soporifera dell’autocommiserazione e “osando”, sia in amore che nella vita di tutti i giorni. Una grande prova “auto” e “atto” -riale che conferma come l’autoreferenzialità teatrale di Emanuele sia il risultato di un accurato studio su se stesso e sugli altri, un osservatore dell’osservante-osservato che sa inchiodare in poltrona per un’ora e mezza il suo interlocutore virtuale.

 

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