Cannes 70. Specchio delle mie brame, qual è lo schermo più bello del reame?

CANNES – Dice chiaro e tondo Mario C.: “Se fossi il padrone di una sala cinematografica, l’avrei giù chiusa e trasformata in un bel supermercato”. Gli fa eco Giovanni B.: “Se fossi il titolare di una fabbrica di televisori, l’avrei già venduta ai cinesi e avrei aperto un bell’agriturismo”.

Mario e Giovanni sono fuori dal mondo. Pretendere che la gente vada al cinema per vedere film che può godersi a casa, o credere che il vecchio televisore, per quanto piatto, digitale e ultrapanoramico possa competere nelle vendite con un computer è patetico. Il mondo cambia e con esso usi, costumi, prodotti e mercato.

Allora, per adeguarsi ai tempi, un film va visto su un supporto elettronico di qualsiasi dimensione, dal maxi-schermo di un PC al mini-display di uno smart-phone. E il vecchio monumentale televisore da piazzare in bella vista in salotto su un apposito carrello con le rotelle è destinato alla discarica di un’isola ecologica comunale. E al cinema chi ci va più?

  Siamo tutti d’accordo? Neanche per idea. Il noto regista spagnolo Pedro Almodovar, i cui film hanno appassionato milioni di spettatori old-style, dalla sua poltrona di presidente della giuria del festival di Cannes ha tuonato: ”Credo che almeno la prima volta un film vada visto su uno schermo che non sia più piccolo della sedia su cui stiamo seduti”.  E ha aggiunto: “Sarebbe un paradosso che una Palma d’oro o qualsiasi altro premio andasse a un film non destinato alla sala”. Per concludere: “Tutto questo non vuol dire che io non sia aperto o non apprezzi le nuove tecnologie e le opportunità che offrono, ma finché vivrò mi batterò a favore della capacità ipnotica del grande schermo per gli spettatori”.

Detto dal presidente della giuria del festival di Cannes, che ha nel concorso per la Palma d’oro due film di cui non è prevista nessuna uscita nelle sale cinematografiche – “The Meyerowitz Stories” del regista americano Noah Baumbach e «Okja» del sud-coreano Bong Joon-Ho – è un’autentica dichiarazione di guerra. Il nemico da battere per Almodovar è Netflix, l’azienda californiana nata vent’anni fa per operare nella distribuzione via internet di film, serie televisive e altri contenuti d’intrattenimento. Inizialmente la sua attività consisteva nel noleggio di DVD e video giochi. Visto il successo e con gli alti profitti realizzati in poco tempo, ha avviato la produzione originale di filmati di ogni specie.  Oggi ha 94 milioni di abbonati con utili pari a 88 milioni di dollari. Al festival di Cannes Netflix ha due film in concorso che il presidente della giuria ha già detto non potranno vincere nessun premio, se non saranno distribuiti nelle sale cinematografiche come tutti gli altri film della competizione sulla Croisette.

Un sasso nello stagno che il “fumantino” Almodovar si è divertito a lanciare per vedere l’effetto che fa.  Fra i suoi stessi giurati non tutti sono d’accordo con lui: Will Smith, giurato esordiente a Cannes, si è detto contrario “ Netflix non impedisce ai giovani di vedere i film in sala”, come dire che i vecchi vadano al cinema e i giovani restino a casa a vedersi i film sul computer. Ma è in ballo il futuro del cinema.

Certo, di acqua ne è passata sotto i ponti dal giorno in cui gli spettatori sono fuggiti terrorizzati dalla sala cinematografica alla vista del treno che arrivava in stazione e sembrava piombare sulle poltrone. Era il 1896, e uno dei primi film dei fratelli Lumières, appunto “Arrivée d’un train an gare di La Ciotat”, stava aprendo  la strada alla straordinaria invenzione del ventesimo secolo. Sulla grande capacità ipnotica del cinema i Lumiéres non avevano dubbi. Ci voleva Almodovar per ricordarlo al pubblico del ventunesimo secolo. 

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