Il libro. Cento passi ancora salvo

ROMA – Pensato come una sceneggiatura, scritto come un diario, “Cento passi ancora” di Salvo Vitale (Rubbettino editore) non è l’ennesimo libro su Peppino Impastato. Racconta altro.

Si concentra su quello che è stato il percorso umano e politico di un uomo, l’autore, e di un gruppo di ragazzi che una mattina si svegliano precipitando nell’incubo di apprendere che uno di loro è stato ucciso. Dalla mafia.

La scrittura di Salvo è asciutta, precisa, spietata. ripercorre quei giorni e gli anni a seguire. Il tentativo di criminalizzare Impastato e i suoi compagni, i depistaggi, l’isolamento, la paura, il dolore. E la rabbia. Racconta del coraggio della madre di Peppino, Felicia, e di suo fratello Giovanni. Descrive cosa rappresentasse fare politica in quegli anni e in un posto come Cinisi. Con tratto lieve racconta una generazione.

Peppino emerge nel racconto attraverso appunti, poesie, frammenti di cose scritte e mai lette o pubblicate. Mentre i suoi compagni si trovano ad indagare sulla sua morte inevitabilmente sono costretti ad entrare in stanze sconosciute, dolorose, complesse. Da quei frammenti emerge ancora più forte la determinazione e la verità su quell’omicidio e sul tentativo di pezzi dello Stato di nasconderlo e poi archiviarlo.

La morte di Peppino ha segnato inevitabilmente la vita di Salvo. Attraverso il suo lavoro e il suo impegno ha cercato, anche con questo libro, di dare senso al dolore e al suo percorso umano. Non è possibile altra interpretazione per una vita segnata da un trauma del genere. Che non è stato solo personale ma anche politico.

Per me è difficile scrivere di Salvo Vitale. L’ho conosciuto quando era già un professore in pensione con la penna tagliente di chi ne ha viste troppe nella vita. E tutte insieme. Forse non ha capito, e io certamente non sono riuscito a dirgli, che ha lasciato segni profondi nel mio modo di pensare e di affrontare le cose sui cui scrivo. Leggendo questo libro ho dato nuovo senso a quei suoi “stai attento” dopo una telefonata in cui gli raccontavo gli sviluppi del lavoro di inchiesta sulla stesura del libro sulle mafie a Roma. O di quel suo silenzio, una mattina di qualche anno fa a Partinico, prima che salissi sulla macchina di una persona che “non aveva una bella faccia”. Non gli avevo detto perché e chi dovevo incontrare, ma il suo sguardo e il suo silenzio erano ben più incisivi di mille “in campana”. Ne abbiamo parlato solo dopo. “Mi ero preoccupato un po’”. Non credo sia facile vivere sempre con tutti i sensi in allerta. “Cento passi ancora” sarebbe stato un gran film. È un gran libro.

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