Libri. “Via Livorno”, un’autobiografia – 5 : “Maurizio Costanzo, partimmo insieme poi lui mi staccò”

Ma quanti anni hai? Sei un ragazzino!”. Di anni ne avevo diciassette, andavo ancora al liceo, ma già “facevo il giornalista”.

E come tale ero andato a intervistare, per una minuscola testata periodica, l’ingegnere che stava dirigendo i lavori per la costruzione del primo sottopassaggio pedonale di Roma, quello scavato sotto Largo Chigi, un fazzoletto di strada strategico per il traffico nel centro storico della Capitale, fra il Corso e via del Tritone, fra la galleria Colonna (oggi Alberto Sordi) e Palazzo Chigi. A vedersi di fronte quel giovanottino impertinente che faceva domande a raffica, l’ingegnere non resse alla curiosità e chiese: “Ma quanti anni hai?”.

Non era la prima volta che non venivo preso sul serio nella mia nuovissima veste di giornalista. E quei diciassette anni e mezzo mi pesavano addosso come una corazza. Avrei voluto crescere all’istante con un trucco: aumentandomi l’età. Anche Maurizio Costanzo, con il quale avevo fin da allora più d’una colleganza, soffriva per la “eccessiva gioventù”: eravamo coetaneo e come me voleva fare il giornalista, abitava anche lui in via Livorno e andava a scuola al “Giulio Cesare”. Il giorno di Pasqua di quell’anno mi aveva annunciato con sussiego che faceva il cronista per una piccola agenzia di stampa, che si chiamava Italmondo ed era la creatura di un tipografo del Giornale d’Italia, Francesco Casadio, che aveva velleità giornalistiche. Detto e fatto andai anche’ io a Italmondo e scrissi il mio primo pezzo di cronaca: argomento la raccolta dell’immondizia a Roma, un classico. 

Io e Maurizio eravamo entrambi giovanissimi e stanchi di esserlo: se gioventù sapesse se vecchiaia potesse! Non ci eravamo ancora resi conto di come il tempo vola. Lui comunque bruciò le tappe. Una carriera, la sua brillantissima, sotto le luci della ribalta teatrale e televisiva.  La mia molto più discreta ma non meno di soddisfazione, che ci ha visto per anni su binari paralleli: lui scriveva su Paese Sera, io sul Giornale d’Italia, lui passò ben presto ai settimanali, io rimasi fedele ai quotidiani. Un giorno m’ invitò alla sua trasmissione radiofonica “Buon pomeriggio” a parlare della mia condizione di vice-critico cinematografico, cioè di aiutante di campo del più qualificato titolare della rubrica. Quando Maurizio diventò popolarissimo andai a intervistarlo nella casa di via dei Banchi Vecchi, dove viveva con la seconda moglie Flaminia Morandi (che per lui aveva lasciato il giornalista televisivo Alberto Michelini) e i due figli Saverio e Camilla e un bassotto, che abbaiò per tutta l’intervista.

Quando, anni dopo, Costanzo diventò direttore de L’occhio, il quotidiano popolare sperimentato dalla Rizzoli, gli chiesi di partecipare all’impresa e lui mi offrì l’assunzione a Milano, “Non posso darti dei gradi – mi disse subito – ma sicuramente uno stipendio più alto”. A me bastò per partire subito per Milano, dopo essermi dimesso dall’Ansa, dove facevo il cronista negli anni di piombo della stagione del terrorismo. “Spero non se ne debba pentire” mi disse freddo il direttore Sergio Lepri al quale avevo appena consegnato la lettera di dimissioni. “E si ricordi che l’Ansa è come l’Arma dei Carabinieri: chi ne esce non può rientrarvi”, mi ammonì. Quando l’avventura dell’Occhio finì male, travolta dallo scandalo della P 2, la loggia massonica alla quale risultarono iscritti la proprietà della Rizzoli e i suoi massimi dirigenti, Costanzo compreso, ci siamo perduti di vista, pur incontrandoci di tanto in tanto, sempre amici ma non più in confidenza.

L’ultima volta in cui ebbi la possibilità di vederlo è stato a Roma al teatro Parioli, nel 1995 perché aveva aderito alla campagna “Sosteniamo un poeta” in favore del vitalizio Bacchelli ad Alda Merini e aveva invitato la poetessa al suo Maurizio Costanzo Show. Per il Bacchelli ad Alda Merini, anch’io ero stato tra i primi a prodigarmi come redattore del TG2, quando l’addetta stampa del gruppo Misto alla Camera dei Deputati, Bruna Alasia, aveva fondato un battagliero comitato di solidarietà per farle avere il vitalizio. Bruna è figlia di Franco Alasia, braccio destro di Danilo Dolci e direttore del sistema bibliotecario urbano di Sesto San Giovanni, città dell’hinterland milanese. Era stato suo padre a farle conoscere la poetessa dei Navigli, perché spesso la invitava nella biblioteca di Sesto a declamare le sue poesie. 

Io stesso, che allora lavoravo a Roma in RAI, aderendo all’iniziativa a favore della poetessa, raggiunsi Milano.  Alda Merini si fece trovare sul pianerottolo, si direbbe in déshabillé, se non fosse che era luglio e Milano bolliva. Fattomi accomodare su una poltrona sfondata e offerto un bicchiere di vino di modesta qualità, cominciò a raccontare. “Eccomi qua, sola, il prestinaio (al marito panettiere aveva dedicato una poesia n.d.r.) se n’è andato anni fa, troppo  presto, le figlie, eh! beato chi le vede, i vicini sono delle bestie che mi fanno i dispetti, i miei amici sono i barboni che incontro quando vado a fare la spesa”. Con quei barboni, la Merini aveva spartito i soldi: anche i 35 milioni di lire del premio Montale, assegnatole nel 1993, che dilapidò rapidamente concedendosi un costoso soggiorno all’hotel Certosa. Ma lei non se ne curava: si mostrò appena contenta quando seppe che un’edizione serale del TG 2 aveva parlato di lei come di “una poetessa povera che andrebbe aiutata”. In quei giorni Giovanni Raboni ne aveva scritto sul Corriere della sera denunciando un “caso Merini”.

Oltre a Maurizio Costanzo, fra i primi firmatari dell’appello “Sosteniamo un poeta” c’erano stati i senatori verdi Edo Ronchi e Luigi Manconi, la senatrice di Rifondazione Comunista Ersilia Salvato, il deputato dei Democratici Luciana Sbarbati, membro della commissione cultura della Camera, l’imprenditrice Marina Salomon particolarmente versata nella comunicazione (continua).

Da “Via Livorno”, editore La Quercia, autobiografia di Sandro Marucci giornalista RAI e tutor della scuola di giornalismo dell’Università LUISS 

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