Libri. Storie vere di cani veri : “Billy, il lupetto che una sera andò a teatro”

Non solo nei racconti di Simenon ma anche a Roma, negli anni Cinquanta del secolo scorso, la tassa sui cani esisteva davvero, perché il Comune aveva deciso di imporre un balzello su quello, appunto il cane, che riteneva un genere di lusso (come del resto il pianoforte, anche quello tassato come bene voluttuario).

E sui contribuenti che tentavano di evadere la tassa fioccavano le multe. Quasi avesse letto i romanzi di Simenon, anche il fisco capitolino aveva diviso i cani in tre categorie, da caccia, da guardia e di compagnia, e le aveva diversamente tassate. Un giorno un vigile urbano in uniforme suonò il campanello dell’appartamento di via Livorno dove, come da regolare pratica al Comune, avrebbe dovuto trovare il cane che era stato dichiarato da guardia. Dopo tutto era un pastore tedesco con tanto di pedigree. A mio padre, rimasto solo in casa perché la famiglia, cane compreso, era partita per le vacanze, il vigile chiese: “Dov’è il cane da guardia?”. Colto alla sprovvista, mio padre rispose: “È in villeggiatura”. Il che era vero, e così il riconoscimento come cane da guardia era andato a farsi benedire. E fioccò la multa. Non solo quella: se i vigili urbani, che in quegli anni evidentemente non avevano tutte le automobili di oggi in divieto di sosta da perseguitare, ti sorprendevano per la strada con il cane sciolto o senza museruola ti appioppavano una multa di trecentotrenta lire di cui trenta erano la loro commissione. Per il cane Billy, per quanto cuccioletto, di multe ne prendemmo subito tre, in rapida successione una per uno, mio padre, mia madre e io stesso per quanto fossi un bambino (ma il vigile non si impietosì e tirò fuori il blocchetto delle multe non tanto per reprimere un reato quanto per intascare la percentuale del dieci per cento). D’altronde, per non pagare la multa non potevamo fare come gli indigeni delle isole Marchesi e mangiarci Billy.

Billy, un amore di lupetto dal pelo nero focato, era arrivato cucciolo, non più di due mesi, portato a casa da mio padre dentro una cartella da ragioniere, da cui usciva solo la testa. Nel vederlo, mia madre non si trattenne dal ripetere il ritornello di tutte le mamme, e che già conoscevo bene: “Niente cani, non è la casa adatta, poi chi lo porta fuori a fare i suoi bisogni?”. Quello era il terzo cane che avrebbe respinto se mio padre quella volta non si fosse impuntato. “Questo lo teniamo. È troppo bello, si chiama Billy”. Ebbi così il mio fratellino con la coda. Eravamo coetanei: il cane due mesi, quindi un bambino, io tredici anni, un ragazzo. Secondo la teoria dei sette anni canini per ogni anno umano, crescendo mi avrebbe raggiunto e sorpassato. Me lo portavo sempre dietro, tranne che a scuola e più tardi al giornale. Venne con me perfino in gita al lago di Bracciano, seduto in precario equilibrio sulla pedana della Lambretta, con la coda che strusciava sull’asfalto della strada provinciale. Un giorno un automobilista superandomi mi indicò la coda che pendeva: con un colpo di tacco la tirai su e proseguii il viaggio. Un’estate, una compagnia di attori girovaghi, uno degli ultimi Carri di Tespi, che toccava le località turistiche più frequentate e sotto un tendone da circo metteva in scena soprattutto titoli brillanti, fece tappa nel paesino del Trentino dove eravamo in vacanza con il cane Billy al seguito. Il repertorio teatrale andava da Come le foglie e Il marito amante della moglie di Giuseppe Giacosa a Due dozzine di rose scarlatte di Aldo De Benedetti, commedie degli equivoci che deliziavano il pubblico estivo. Una sera mentre compravo i biglietti al botteghino indicai il lupetto chiedendo: “Posso entrare con lui?” E il capocomico di rimando: ”Ma certo! Siamo attori, cane più cane meno”. E fu così che Billy andò a teatro. Sdraiato sotto una sedia, se ne stava talmente buono che nessuno degli spettatori si era accorto della sua presenza. Sul palcoscenico, l’azione volgeva al finale. Sorprendendo la moglie con l’amante, il marito tradito impugnava una pistola e al grido “Fedifraga, ti uccido” sparava un colpo, ovviamente a salve, con la pistola di scena. Alla detonazione Billy, che da bravo cane-lupo evidentemente aveva nel DNA i geni del poliziotto, balzò fuori abbaiando furiosamente. Intanto calava il sipario e il pubblico applaudiva ma quell’abbaio aveva entusiasmato la platea che si divertì moltissimo al fuori programma. L’indomani replica ma senza Billy in platea. E la risposta del pubblico fu meno calorosa. Al punto che il capocomico (quello di “Siamo attori, cane più cane meno”) incontrandomi in paese mentre ero a spasso con Billy mi chiese se la sera potevo portarlo a teatro, dicendo: ”Quel cane ha dei tempi da vero attore” perché aveva saputo abbaiare al momento giusto. Purtroppo la vacanza era al termine e Billy si vide troncare fin dall’inizio una promettente carriera di cane-attore di prosa. Oltre che a teatro Billy si faceva voler bene anche in casa: mai combinato marachelle, lunghissimo l’elenco delle occasioni in cui si dimostrò di grande intelligenza. Aveva imparato ad uscire da solo: dal quarto piano faceva le scale a rotta di collo, si sparava nel cortile, subito una pipì al primo palo della luce poi, senza mai scendere dal marciapiede, faceva il giro dell’intero isolato. Le prime volte era di ritorno dopo dieci minuti, ma col tempo allungò sempre più la sua ricreazione. Una sera, rincasando alle ore piccole dal giornale ho dovuto andare a cercarlo nelle strade deserte: eccolo lì, ad un incrocio, seduto sul marciapiede: aveva seguito una femmina in calore e s’era attardato. Nel vedermi, ha fatto con la coda un cenno di saluto, poi manifestamente controvoglia è salito sulla Lambretta e si fatto riportare a casa. Quando le sue uscite si prolungavano un po’ troppo, cominciavamo a preoccuparci. Ma Billy tornava sempre: negli ultimi anni, con i primi acciacchi, ai quattro piani di scale preferiva l’ascensore. Gli bastava sedersi davanti alla porta e aspettare il primo inquilino che rincasava. Ormai lo conoscevano e tutti lo accompagnavano al nostro piano, poi proseguivano per il loro. Davanti alla porta chiusa di casa (non gli abbiamo mai dato le chiavi!) un abbaio e gli si apriva. Un giorno mia mamma accarezzandolo gli sentì sulla testa un profumo femminile. E da allora il fatto si ripeté, al punto di dare inizio alla leggenda: quando sta fuori più a lungo, Billy va a trovare una signora che evidentemente lo accarezza lasciandogli sulla testa il suo profumo. Ne abbiamo riso, ma il mistero è rimasto. Un giorno lo perdemmo di vista al mercatino rionale: eravamo quasi sul punto di tornare a casa sconsolati, quando lo vedemmo che ci aspettava all’uscita dal groviglio di bancarelle: “Di qui dovranno passare” aveva giustamente ragionato. Solo una volta combinò un piccolo guaio, ma senza averne colpa: fu quando fra i giornali vecchi che si divertiva a strappare sotto il tavolo di marmo della cucina, fece a pezzi minutissimi anche i biglietti del treno (tra i quali anche il suo, costato metà prezzo) per una vacanza appunto in Trentino. Dopo averli cercati in tutta la casa, mia madre andò a rovistare nella cuccia di Billy e scoprì la terribile verità. Ma il viaggio si fece lo stesso, dopo aver ricomprato i tre biglietti del treno. E nessuno rimproverò Billy, anche se la doppia spesa dei biglietti del treno pesò non poco sulle scarse finanze materne. Quando morì per un blocco renale Billy aveva poco più di undici anni. Il veterinario mi comunicò la diagnosi infausta, con la morte nel cuore chiamai il canile municipale che mandò un incaricato, un “accalappiacani” come si chiamavano allora, a fare l’iniezione letale che avrebbe posto fine alle sue sofferenze. L’eutanasia fu praticata nella sua cuccia, sotto il tavolo di marmo della cucina, dove anni prima, giovane e forte, si era accanito sui biglietti ferroviari Roma-Trento. Stecchito dalla stricnina, Billy lasciò via Livorno chiuso in un sacco, destinato all’immondezzaio comunale. Avrei voluto dargli una degna sepoltura, ma dove? All’epoca non c’erano ancora i cimiteri per animali. Comunque, in ricordo di Billy, quando sono andato ad abitare in campagna, ho sempre dato decorosa sepoltura in giardino ai tre cani che negli anni avevo raccolto randagi: Picchio, Spilù, Pierina, con il gatto Milù, dividono una tomba con i loro nomi incisi su una targhetta di ottone.

Tratto da “20 storie vere di cani veri” di Sandro Marucci, edizioni La Quercia 2021 – 1

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