Libri. Storie vere di cani veri. Picchio, il bastardone che odiava gli autogrill

La zona di ville e di giardini pullulava anche di cantieri edili. E in ognuno c’era un cane a fare da guardia di notte, di giorno dormiva e mangiava quello che gli passavano gli operai.

Ma il destino era crudele: quando la casa era finita, il cantiere smobilitava e il cane rimaneva solo e abbandonato. Poteva trovare un altro cantiere o una casa abitata, oppure affrontare la vita del randagio. Picchio, come si sarebbe chiamato di lì a poco, decise di tentare, e un giorno saltò la recinzione di un giardino e si presentò davanti alla porta-finestra di una cucina da cui proveniva un delizioso profumino di stufato. Non chiese nulla, restò fermo ad aspettare finché una porta si aprì, una voce infantile disse “Guarda chi c’è!” e subito tutta la famiglia era schierata davanti al nuovo arrivato. Picchio, come lo avrebbero chiamato di li a poco, era un bastardone di taglia grande, a pelo corto, una via di mezzo fra un pointer e un bracco, ma senza assomigliare a nessuna delle due pregiate razze, e aveva gli occhi dolci. Era, insomma, un meticcio di indole buona, ma soprattutto aveva fame. In breve, una ciotola piena di cibo gli fu posta davanti, il cane la spolverò in due secondi, poi si sdraiò sull’erba con l’aria di dire “Io qui ci starei benissimo”. E così fu. Assunto in pianta stabile si rivelò affettuosissimo, mansueto, pronto ad abbaiare se vedeva avvicinarsi uno sconosciuto, sapeva andare composto al guinzaglio fra la gente, lo potevi portare con te ovunque, al mare, in montagna, in città sempre disponibile e soprattutto educato. 

“Chissà da dove viene? – si chiedevano in famiglia – non può essere sempre stato un randagio, deve aver avuto un padrone”. Il dubbio non fu mai risolto: era un cane con un passato ma misterioso. Il primo giorno in cui si partì per una vacanza in camper Picchio saltò a bordo con un balzo e si acciambellò ai piedi del posto del passeggero, immobile per tutto il viaggio, sembrava dormire della grossa. Anche questo era un merito che all’ex-randagio di nome Picchio andava riconosciuto: era un gran viaggiatore, capace di stare immobile al suo posto per ore e ore di autostrada senza fiatare. Il ron ron del motore gli faceva da ninnananna. “Non tutti i cani sanno stare così buoni in macchina. Deve essere stato il cane di un camionista – insinuò qualcuno della famiglia – chissà quanti chilometri avrà fatto?”. Di viaggi in automobile se ne intendeva: delle fermate ai semafori non si curava, ma quando al ritorno si imboccava la strada di casa sembrava dormisse e invece saltava su come un grillo come per dire “Siamo arrivati” e si sparava giù dallo sportello per una meritata, urgente pipì. Un giorno la rivelazione: è ora di pranzo, il grosso camper si ferma all’autogrill. Tutti ne scendono ma non Picchio. Si è alzato dal suo posto, si è guardato intorno, ha annusato l’aria ma non si è mosso. Non c’è stato verso di farlo scendere dal veicolo, non con le buone né con le cattive. Irremovibile. E li è rimasto solo, dopo tutto avrebbe fatto buona guardia. Dopo pranzo, nel riprendere il viaggio, Picchio ha ritrovato la sua forma abituale: feste a tutti, moine, salti di gioia. Era evidente: il pericolo era passato, aveva temuto di essere abbandonato nell’autogrill. Forse gli era già successo nella vita precedente, quando era stato il cane di un camionista distratto che se l’era dimenticato o delinquente che l’aveva proprio mollato. Da quel giorno Picchio ha fatto molti altri viaggi, molte altre soste ma non è mai più sceso a terra in un autogrill. 

 Il cane Picchio per qualche anno della sua vita terrena (che ci sia un Paradiso degli animali non è provato ma sarebbe quanto mai opportuno, non il Purgatorio e tanto meno l’Inferno che nessun animale si merita: per molti di loro l’Inferno è su questa terra, gestito da uomini peggiori del Diavolo, come i crudeli allevatori, i sanguinari macellai, i rapaci pescatori, gli stolidi cacciatori, i ricercatori senza cuore che non si fermano nemmeno dinanzi alla vivisezione, tutti al servizio dell’umanità carnivora che mangia di tutto: i bipedi dalla più piccola quaglia al più grande struzzo, i quadrupedi dal più tenero coniglietto al gigantesco ippopotamo, e dal mare preleva con rapinose tecniche industriali ogni essere vivente dalla minuscola tellina alla monumentale balena, i cinesi mangiano i cani, gli indiani gli insetti! D’accordo, ci sono anche i vegetariani ma sono una minoranza esigua, che non potrà mai invertire la tendenza) il cane Picchio, dicevamo, per qualche anno della sua vita in casa nostra ha convissuto in totale armonia con il gatto Zazà, detto Zizolino. Entrambi adulti ed ex-randagi, sapevano bene di aver trovato una sistemazione più che soddisfacente e non si sono mai azzardati a creare problemi fra di loro o con la famiglia. Sfatando il luogo comune, andavano d’amore e d’accordo o, meglio, se non si amavano certamente si rispettavano. Il gatto Zazà aveva diritto ad entrare in casa con poche esclusioni: certamente le camere da letto, a volte il salotto. Il cane Picchio fece notare a modo suo la differenza di trattamento e ai primi freddi autunnali seppe mimare benissimo i dolori reumatici alle zampe e fu ammesso in casa. Una brandina adatta alla sua stazza prese il posto della legna del camino e lì trascorreva le sue giornate casalinghe.

Il gatto Zazà non era da meno: acciambellato su una sedia di paglia verso la quale non ha mai osato allungare gli artigli, dormiva le sue regolamentari dieci ore al giorno a intervalli regolari. Con il grosso cane e il piccolo gatto in silenzio uno di fronte all’altro, in quel tinello avresti sentito volare la proverbiale mosca. Ma c’era un momento che faceva cambiare la situazione. Ed era quando il gatto Zazà con un garbato, prolungato “miao” chiedeva la sua pappa. E al rumore dei rotolini che dal parallelepipedo della scatola di cartone del supermercato cadevano nella ciotola di plastica rossa il cane Picchio si svegliava di botto, lui che da ore dormiva letteralmente a pancia all’aria, sembrava uno dei cani di gesso trovati a Pompei, e si metteva in trepida attesa. Di che cosa? Aspettava che Zazà concludesse il suo frugale pasto per finirne gli avanzi. Ma il gatto sembrava sapesse che l’amico cane stava aspettando e forse proprio per questo se la prendeva comoda: rosicchiava un rotolino dopo l’altro con la calma di chi non ha davvero nessuna fretta. E quando aveva finito lasciando come d’abitudine dei gatti un po’ di cibo per l’indomani, sempre con calma tornava alla sua sedia di paglia accanto al camino per riprendere il sonnellino interrotto. Solo allora il cane Picchio si avventava sulla ciotola rossa e con quattro colpi di lingua spazzolava il rimasuglio e, finalmente placato, tornava anche lui all’amata brandina. Ma per farlo doveva passare accanto alla sedia di Zizzolino, che ora si trovava alla sua stessa altezza. E ogni volta il gatto allungava pigramente una zampa e faceva al cane una carezza affondando le unghie nel pelo lungo e fitto. Poi sgrullava la zampetta quasi si fosse sporcata, e sembrava chiedersi: “Ma questo cane non si lava mai?”.

Da “20 storie vere di cani veri” di Sandro Marucci, la Quercia editore 2021 – 3

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