Libri. Storie vere di cani veri. “Shiva, bovaro bernese amante degli scacchi”

Quando lo Scrittore decise di prendersi in casa un cane, lo fece per avere un antidoto alla solitudine che lo aveva attanagliato da quando il suo matrimonio aveva fatto naufragio.

“Non ti amo più” le aveva detto la moglie un venerdì sera, e il lunedì successivo se n’era andata portandosi via i due figli. Di colpo aveva svuotato la casa coniugale di tre quarti dei suoi abitanti. “Se cane deve essere – si disse lo Scrittore – che sia bello grosso”.

E così, dal centro di allevamento di quella speciale razza svizzera, arrivò nella grande città, al primo piano di un palazzo signorile in un quartiere borghese, Shiva, bovaro bernese, cucciolo appena svezzato, sui due o tre mesi, comunque già grosso come un San Bernardo piccolo. Il che è tutto dire. “E come diventerà? – si chiese preoccupato lo Scrittore quando se lo vide recapitare a casa da un corriere, come fosse l’ultimo modello di televisore ultra-panoramico. Per trovare posto alla brandina in salotto dovette spostare proprio il televisore, di cui peraltro si riprometteva di aumentare le dimensioni per meglio godersi le partite della squadra del cuore. Con l’arrivo del cane il progetto fu rimandato a data da destinarsi. 

In città Shiva si trovò subito benissimo. D’altronde i pascoli svizzeri li aveva solo del Dna, non ne aveva mai visto uno in vita sua, e il giardinetto sotto casa con uno striminzito alberello da innaffiare a ogni uscita, gli sembrava già sufficiente per i suoi bisogni. In materia di botanica non aveva mai considerato nulla di diverso né di meglio. Li vedevi passare quasi ogni giorno, cane e padrone, l’uno a stiracchiare con il guinzaglio l’altro, che si difendeva dagli strattoni come poteva. I passanti che incrociavano la strana coppia cambiavano istintivamente marciapiede: faceva impressione, sembrava pericoloso quel cane grande e grosso con quel mantello a pelo folto come un terranova di tre colori bianchi, nero e marrone focato, (lo stesso dei gatti di una specie detta mediterranea, solo che i tre colori sono delle femmine, mentre fra i bovari svizzeri non c’è distinzione di genere). 

Un giorno d’estate lo Scrittore fu invitato da un amico a pranzo in una villa in campagna, e si presentò con Shiva. Sceso dall’automobile, il bovaro si guardò intorno, annusò l’aria e partì alla scoperta del giardino dove svettavano una dozzina di querce, come a Tara di Via col vento. Non aveva mai visto niente di più bello. Con passo solenne ne percorse tutto il perimetro mettendo in fuga uno scoiattolo che abitava da anni su una quercia a oltre dieci metri di altezza e due gatti, che non essendo proprio di casa erano comunque abituali frequentatori del giardino. Ma Shiva non si curò di loro, concluse il suo giro d’ispezione, come fanno gli uomini della polizia quando “bonificano” uno spazio prima dell’arrivo della personalità alla ricerca di eventuali ordigni esplosivi. Convinto che non ci fossero pericoli in vista e che tutto fosse in ordine (dopo tutto aveva discendenze svizzere), il bovaro tornò dallo Scrittore e sembrò ringraziarlo con due colpi di coda per la bella giornata all’aria aperta che gli aveva regalato. Appena la compagnia sedette a tavola, il bovaro si accucciò fuori della porta-finestra che dava sul patio e assistette, in silenzio ma attento, a tutto lo svolgimento del pranzo. Solo un paio di volte, quando lo scrittore si alzò da tavola per rispondere al cellulare, Shiva si alzò pure lui e con le orecchie “appizzate” sembrò seguire con attenzione la conversazione. Al termine della telefonata, si rimise al suo posto con un grugnito di soddisfazione. “Vedi – lo indicò lo Scrittore agli amici – non mi perde mai di vista. È un vero cane pastore”. E un amico irriverente: “Allora tu per lui sei il bove!”. 

Un giorno si sparse la voce di un’azzardata iniziativa dello Scrittore: pare che si fosse messo in testa di insegnare al suo cane a giocare a scacchi. Era successo perché sul basso tavolino del salotto c’era sempre in bella vista una scacchiera, con i pezzi disposti per l’inizio di una partita o sparsi a indicare una partita interrotta e mai finita, oppure c’era un re irrimediabilmente stretto in uno scacco matto da manuale. E una sera, rientrato a casa, lo Scrittore gettando uno sguardo alla scacchiera si era accorto della sparizione del re, che non era nel suo angolo sotto scacco, ma nella cuccia del cane, con la testa coronata un po’ mangiucchiata. Era evidente che a prelevare il pezzo era stato Shiva, forse incuriosito dall’interesse che vedeva nel padrone per quelle statuine in fila, sicuramente dei giocattoli, durante le lunghe partite la sera dopo cena. Comunque, quel re con la testa di legno non era buono da mangiare e dopo averlo mordicchiato, il cane ci si era addormentato sopra. Ma con quel gesto aveva dato un’idea allo Scrittore: “Vuoi giocare a scacchi? Allora, ti insegno!”. Non è dato sapere se veramente le lezioni siano state impartite, se l’allievo sia stato diligente, se insomma il bovaro bernese sia stato il primo esemplare della sua specie a impratichirsi di pedoni, torri, alfieri e cavalli, o se invece si sia trattato di una leggenda metropolitana. Ma una cosa è certa: da quel giorno nessun pezzo è più mancato dalla scacchiera per essere ritrovato nella cuccia del cane. Evidentemente Shiva si era appassionato agli scacchi e aveva imparato a rispettarli, anche senza essere mai riuscito a giocare decentemente. Qualche anno dopo la situazione era cambiata. I ragazzi erano cresciuti e ormai giovanotti erano tornati a vivere con il padre. Poco alla volta la casa tornò a riempirsi di persone, Shiva ne fu soddisfattissimo. Aveva visto aumentare il suo gregge e riprese tranquillamente ad amministrarlo. Da bravo bovaro bernese.

Da “20 storie vere di cani veri” di Sandro Marucci, edizioni La Quercia 2021 – 11

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