Lotta, amore e fantasia

Massimo trentotto anni, precario.
Massimo che nella vita ha pensato spesso al piacere. Diplomato in conservatorio con il grande sogno di diventare musicista.

I sogni andavano a spasso con lui, e con questi la sua aspirazione di uscire dal coro per suonare canzoni originali, di pace e unione.
La vita gli ha risposto in un’altra maniera, così nel tempo e col tempo decise di mollare tutto e andare a fare un lavoro normale.
Massimo e la cornetta del telefono, lui che lavora con fatica e senso del dovere. Le giornate scorrono, automatiche, veloci l’una simile all’altra.
Si parla di contratto a tempo indeterminato, arrivano promesse e complimenti. Pacche sulle spalle, sogni di sicurezze che si adagiano. Il “posto al sole”.
Massimo non è felice per quello che fa, ma si accontenta. La sera quando stacca continua a mantenere viva la sua anima, suona ancora per non smettere di sognare.
Musica e sicurezze.
Pensa che si potrà sposare appena gli faranno firmare il contratto. Sogna e non smetteva di farlo anche quando gli dicevano di stare attento, che nulla era ancora detto, che si paventava l’ipotesi che Luigi Granieri nipote dell’amministratore delegato sarebbe entrato al suo posto.
Mattina di settembre.  Piove, i volti delle persone sono cupi e indaffarati nei meccanismi quotidiani. Schemi oliati, ben definiti, nulla che possa sfuggire al controllo. Massimo è in Metro sta andando a firmare il rinnovo di un contratto che vuol dire “ tempo indeterminato”. Guarda quelle persone e si chiede il perché di quei volti privi di sorrisi e spensieratezza. Non basta poco per essere felici? Pensa alle parole di suo padre, parole di allerta nei confronti un mondo che è cambiato, verso una lotta che non c’è più, e verso una collettività che ha smesso di sognare, amare e rivoluzionare.
Pensa a quelle parole, e le rispecchia in quei volti mentre l’attesa per il grande momento cresce.
Arriva in azienda, la sede centrale è particolarmente curata nella sua asetticità, la gentilezza del portiere lo fa sentire ancora più al sicuro. Ha gli occhi di un bambino che sta per ricevere il regalo più bello.
Quando lo chiamano per andare al primo piano sale le scale quasi volando, sa in fin dei conti che quel lavoro non è quello che ama. Sa che crescendo ha trasformato i suoi sogni, e che l’adeguarsi non è nulla di così nocivo quando c’è impegno.
Accolto dalla segretaria, viene lodato e ringraziato per la sua puntualità e la sua dedizione. Lui che è un ritardatario nato, lui che ama vivere con lentezza, eh si, si è proprio meritato quel posto. Si sente stimato, sempre partendo dal presupposto che sta nel suo piccolo… nel suo piccolo mondo fatto di piccoli risultati raggiunti con grandi sforzi. La certezza definitiva del suo accesso al tempo indeterminato è il report semestrale che lo vede il migliore operatore della centrale. Non è una gara, né uno scudetto, ma tra raccomandati di lusso e veterani che dormono mentre lui si “sbatte” è sicuramente un’ulteriore conferma dei suoi sforzi. I giorni in cui pensava che con la fine della sua carriera musicale fosse finito tutto, sono oramai distanti.
Lo sguardo della segretaria Marzoni cambia d’un tratto, si fa più serio e il busto si irrigidisce. “Malgrado tutto quello che ha fatto” dice, “e constatando comunque il suo notevole impegno, vorrei ringraziala in prima persona per il suo lavoro e la serietà mostrata, ma al momento purtroppo, non possiamo prolungarle il contratto. Non sappiamo, ad ora, se in futuro avremo altre posizioni aperte. Sono comunque sicura che riuscirà in breve tempo a trovare un lavoro che la realizzi e dove lei  possa essere apprezzato e valorizzato”  

Un vetro si fracassa all’improvviso, sparge le schegge per la stanza. Investe il suo corpo, o  meglio, si sente come se un tir entrasse dentro la sua auto mentre sta al semaforo attendendo che divenga verde. No, neanche questo. E’ indescrivibile la sensazione di cadere nel vuoto senza nessun posto dove poggiarsi. Precipita violentemente senza capire dove potere atterrare. Non era tutto risolto? Non aveva fatto bene a diventare un ragazzo come gli altri e trasformare i suoi sogni in realtà più solide?
Massimo non ha avuto neanche la forza di dire qualcosa, tanto erano forti amarezza e  smarrimento. Deluso, ha sceso le scale come se la gravità fosse aumentata esponenzialmente in quella mezz’ora. Testa bassa e parole non menzionabili lo conduceveno verso la metropolitana, e lì, ora, aveva lo stesso volto che vedeva negli altri solo qualche ora prima.

Qualche mese dopo si trova a  casa, con un assegno di disoccupazione e un’affitto da pagare, una compagna senza lavoro e incertezze sul ripartire. Rubrica dell’agenda. Numero dell’ufficio legale del sindacato più popolare d’Italia, qualche informazione, e infine l’appuntamento con il giovane avvocato Bernardi. La possibilità di citare in giudizio l’azienda, ma al tempo stesso, viste le cause gratuite che il sindacato portava avanti, la richiesta implicita di studiare il ricorso da solo. Portarlo all’avvocato che lo avrebbe steso nel linguaggio migliore e depositato presso il Tribunale del Lavoro.
Mesi chiuso a casa a studiare leggi, riforme, applicazioni normative eccezionali, sentenze dell’ Unione Europea sull’illegittimità dell’apposizione al termine. Una causa che si affiancava ad un ideale, una causa che si affiancava alla voglia di poter amare la sua compagna serenamente, una causa per tutti quei precari che avevano rinunciato, per quelli che non sapevano e per quelli che gli dicevano che era persa in partenza.
Nel frattempo l’azienda assunse a tempo indeterminato sei lavoratori  raccomandatissimi, e qualche mese dopo quattordici precari, per i quali valeva la pena creare un precedente.

Passarono giorni e nel frattempo la lotta continuava, il DDL lavoro passava alla Camera e le piazze erano vuote. Berlusconi “Bunga Bungava” e le piazze erano vuote. La crisi aumentava e le piazze erano vuote.
Dove erano finiti tutti? Avevano smesso di credere ad un ideale? Dov’erano senso di unione e di collettività? Era lo stare a casa disoccupato che lo portava ad avere questi pensieri, o era la realtà che poco a poco era mutata disgregando tutto? La chiamavano post-modernità, era del nuovo capitalismo. Fino a qualche anno prima gli ammonimenti nefasti potevano essere accostati alla letteratura fantascientifica, ora invece tutto sembrava rivelarsi nella sua potenza disgregatrice. Mentre leggeva saggi di politca e sociologia, pensava che stare a casa anche se pagato faceva male. Che quella causa era così importante da dimenticarsi di suonare. Erano giorni grigi ma pieni di senso di resistenza, dignità e passione. Per lottare d’altronde non serve il frac.

Il giudice dopo un anno e mezzo ordinò il rientro in azienda. Massimo aveva vinto la sua battaglia, anzi la “nostra”. La sentenza per lui era come un monumento, un’epigrafe da lasciare ai posteri, la sua vittoria personale verso il prepotente, verso le relazioni amicali che rendono questo paese quello che tutti conosciamo.
Il rientro fu grandioso. Per lui i suoi ex colleghi fecero una festa. Anche chi lo criticava, chi lo reputava furbo e riottoso era sinceramente soddisfatto per lui. Massimo si stupì nel vedere quelle persone unite sotto il simbolo della vittoria, e si disse che in fin dei conti il genere umano non era così malvagio.
Ma in ogni storia che sia degna di essere reputata tale c’è sempre un “ma”. Il “ma” fu la reazione dei precari, per lui amici e compagni, che invece, lo assalirono, gli diedero del ladro perchè quello era il loro posto di lavoro.
Coloro per i quali aveva lottato gli davano del ladro, che senso aveva?
Con umiltà tornò a lavorare più di prima, per non fare sentire i precari come se fossero una categoria subalterna. Ci vollero quattro mesi per far capire che lui voleva unire e non dividere, che voleva essere assieme e non disgregare. Che la lotta è di tutti e non di uno solo.
Nel giro di due anni i precari furono mandati via in tronco tutti e quattordici. Arrivò una lettera di mobilità, l’azienda chiudeva i battenti. Tutti a casa anche i più anziani. Una volta ancora il terreno sotto i piedi venne a mancare all’improvviso, mentre il sindacato, che sapeva tutto da mesi, non fece nulla. Il salvabile non venne salvato.
Vidi Massimo negli occhi, appesantiti, pieni di rabbia e delusione. Mi disse che in fin dei conti non importava, perché lo aveva fatto non tanto per lui, ma per quello che credeva, e che non era importante se gli altri non ci credevano più. Quello che non può morire non muore mai, le passioni e la dignità si nascondono nel silenzio ma non spariscono. E’ in quei momenti di nulla apparente che si studia una nuova strategia di lotta, non bisogna mai dimenticarci da dove veniamo.

Massimo oggi suona in una sua piccola orchestra. Ha smesso di credere ai sindacalisti e ai politici che dovrebbero rappresentarlo.
L’ho rivisto recentemente in un caldo giorno di luglio mentre lavoravo in un call center. Mentre parlavo al telefono ho sentito della musica venire da fuori con parole che inneggiavano a non arrendersi mai. Mi sono affacciato e l’ho riconosciuto, e con lui, altri ragazzi che quel giorno ci hanno  fatto capire che i sogni e le lotte non sono finite, che basta poco per cadere e molto per rialzarsi. Che fin quando il suono dell’anima ci regala armonia non si smette mai di lottare e sognare.

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