“Jacko X”, il musulmano – racconto trentaduesimo

La mattina  del 16 gennaio 2004, in un’alba che stentava a illimpidirsi,  tre lussuosissime berline nere  lasciarono Neverland dirette  al tribunale di Santa Maria, nella contea di Santa Barbara. Dall’alto degli elicotteri tutte  le televisioni più importanti le seguirono per documentare il viaggio di Michael Jackson verso la prima udienza preliminare.

La carovana arrivò al tribunale alle 8.30, in perfetto orario e trovò la polizia  che stentava a contenere una folla inimmaginabile. Mai si era visto uno stuolo di mezzi di informazione così ingente: la NBC aveva montato una piattaforma di quarantaxinque metri quadri per sostenere il suo team; la CNN aveva una postazione che le consentiva una vista panoramica sullo spettacolo. I 2200 accreditati stampa erano accampati in tende improvvisate, comprese le reti televisive Fox, Abc e Cbs, di fronte al tribunale di Santa Maria. I giornalisti erano circondati da cordoni di protezione perché i fan gridavano al complotto dei media. Una siepe di sostenitori,  issanti cartelli a difesa di Michael,  lo stava accogliendo a squarciagola:
Innocent! Innocent!
Jacko chiese di abbassare i vetri, sporse le mani, strinse quelle degli innamorati:
I love you!  I love you all!
Commosso, rinfrancato, nonostante la notte insonne,  le lacrime versate, il re del pop si sentì meno solo. A un tratto un nugolo di umane cavallette sommersero l’auto che  non riuscì più a muoversi. Gli agenti, sgomenti per ciò che non avevano calcolato, impreparati al presidio del “dio”,  faticarono non poco a disperderli. Finalmente il cantante riuscì a entrare nell’aula mentre i suoi genitori e fratelli prendevano posto tra grida di incoraggiamento e battimani. Rimarcando i ventuno minuti di ritardo il giudice Rodney Melville  esordì seccato:
Mr. Jackson, è partito con il piede sbagliato, questo è un oltraggio alla corte.
L’udienza iniziò nel silenzio attonito: dieci i capi di imputazione, che poggiavano su ventotto atti illeciti, riguardanti l’associazione a delinquere.
–     I fascicoli – disse il giudice Melville – nonché tutte le prove raccolte dall’accusa, non dovranno trapelare al di fuori del tribunale…  l’interesse dei media per questo processo darebbe luogo a facili speculazioni…   ciò nuoce alle parti, ai testimoni, ai membri della giuria…

Molte persone normali, con stili di vita ordinari, erano state chiamate a fare il giurato:  con le scuse più diverse rifiutarono,  imbarazzate nel ritrovarsi a dover analizzare un idolo delle folle come  criminale. I giurati furono valutati uno per uno. Furono chieste loro informazioni personali, soppesata l’ obiettività e l’ opinione sulle forze dell’ordine, fu accertato che non avessero commesso reati: tutti erano d’accordo sul fatto che nella giuria non avrebbero dovuto esserci fan di Michael Jackson. L’avvocato di Michael, Tom Mereseau, non fece pressione perché tra i giurati fossero inclusi degli afroamericani: voleva una vittoria totale e avrebbe sfidato su questo punto il giudice Sneddon. Al termine della prima udienza, uscendo dal tribunale di fronte a una folla ancor più straripante, Jacko salì sul tetto della berlina, ballò il moonwalk, lancio baci, salutò e gridò:
I love you my fan!  I love you all!
Mentre l’auto ripartiva, quelle mani, quelle facce contro i finestrini, quelle bocche urlanti il suo nome, per la prima volta non gli fecero paura: erano loro la sua protezione,  la sue vere guardie del corpo.  Rispondendo all’appello del “Michael Jackson international fan club”,  con fede incrollabile nella sua innocenza,  i devoti organizzarono manifestazioni di protesta in molte città del mondo, tennero veglie al lume di candela,  “Number one”, la raccolta di successi del re del pop, ebbe un’impennata del 22% nelle vendite. “Thriller”  tornò in classifica persino  fuori degli Stati Uniti. Per le strade di Los Angeles  “Beat it”   ora echeggiava  come ai bei tempi.

Michael Jackson – Beat it

***

Mentre questo accadeva, un’altra vicenda aveva preso forma intorno a Michael Jackson: si diceva  si fosse convertito alla religione musulmana, con adesione alla discussa formazione fondamentalista di Louis Farrakhan , la “Nation of Islam”,  che lo avrebbe ribattezzato con il nome di Jacko X.  Raccontavano che il primo a presentare al cantante Louis Farrakhan  sarebbe stato l’attore Eddie Murphy, che suo fratello Jermaine, sin dal 1989, lo avrebbe introdotto nel movimento. Secondo notizie diffuse da “Fox news” alcuni attivisti musulmani facevano parte dell’entourage di Jackson: di fatto una sua guardia del corpo, Leonard Muhammed, era anche capo dello staff di Louis Farrakhan. Debbie Rowe,  madre di  Prince Michael I e della piccola Paris, che professava la religione ebraica, colse subito l’occasione della supposta conversione del re del pop per sottrarsi ai patti intercorsi con Michael e, nella speranza di riprendersi i figli,  adì le vie legali con accuse durissime contro di lui: di non essere un buon padre, di dare ai piccoli un’educazione deleteria obbligandoli a una vita di reclusione, confinandoli all’influenza coercitiva e antisemita della tata Grace Rwaramba, che dicevano aderente al gruppo fondamentalista “Nation of Islam”. Etichetta che, dopo l’11 settembre 2001,  faceva accapponare la pelle agli americani.

Una mattina a Hayvenhurst, preoccupata per la sorte di quel figlio tanto privilegiato e disgraziato a un tempo, Katherine  sedeva in poltrona sfogliando i giornali. Una notizia nelle pagine interne la impensierì: il portavoce di Michael,  Stewart Backerman,  aveva dato le dimissioni e aveva sbattuto la porta. Da buona testimone di Geova si attaccò al cellulare, sentì all’altro capo una voce impastata di sonno e chiese:
Sono mamma, sei tu Michael?
Dimmi…
Ho appena letto che Stewart se ne è andato…
E allora?
Non sarà per quella faccenda dell’Islam?
Mamma  ti prego…
Mi hanno riferito che i musulmani neri ti controllano, il ranch, i tuoi affari, il soldi che spendi, gli amici, chi vedi e chi non vedi, gli avvocati, i giornalisti…
Basta!
Dicono che ti chiami Jacko X… che la Nation of Islam sta impostando contro il processo una strategia mediatica  sulla persecuzione razziale…
Michael si tappò le orecchie e la lasciò parlare.
Non mi pare una buona strategia – continuò sua madre – soprattutto se in bocca a fondamentalisti… ma chi è stato a trascinarti in questo gorgo? Grace Rwaranba?  Quella donna non mi piace, non è una buona tata per  i bambini…
Michael respirò a lungo prima di rispondere:
Sto già pensando a nuovi portavoce che smentiscano tutto, quando la farai finita di credere a tutte le fandonie?
Katherine ebbe un groppo alla gola e il mento le tremò, non riuscì a dir nulla a quel figlio tanto grande e tanto piccolo.  Si sentì impotente e una lacrima le rigò una guancia. Persino lei, che era sua madre, pensò che Michael non aveva che se stesso, pregò per lui, perché riuscisse a nuotare controcorrente.

***

Thomas Mesereau, avvocato di Michael Jackson, nel caso Chandler, era fermamente convinto che Michael fosse stato vittima di pessimi consiglieri e credeva nella sua innocenza. Imponente, non in cerca di autopromozione, divenuto famoso per le sue capacità, per prima cosa Mesereau prese l’importante decisione di liquidare tutti i membri della “Nation of Islam” che da tempo costituivano le guardie del corpo della pop star, affidando la sicurezza del divo a una compagnia privata. Il processo vero e proprio iniziò come previsto il 31 dicembre 2005. Il re del pop apparve apparentemente rilassato, truccato, elegante in un tre pezzi bianco con ricami d’oro. Al suo fianco Thomas Mesereau e l’ assistente Susan Yu, affiancati da un legale esperto in difesa criminale Robert Ranger e dall’avvocato  Brian Oxman. Le parti furono chiamate  a selezionare una giuria che potesse garantire l’imparzialità. Per la contea di Santa Barbara erano stati inviati quattromila ordini di comparizione. Il primo giorno i convocati furono quattrocentotrenta. Nel bailamme dei mezzi di informazione molte le dichiarazioni e le controdichiarazioni per influenzare i membri che avrebbero dovuto emettere il verdetto. I giurati affermarono dunque che non avrebbero prestato orecchio né al gossip mediatico, né all’altisonanza della celebrità in questione.  Durante l’udienza, dopo la lettura dei nomi dei cinquecento testimoni a favore della difesa, alla giuria venne chiesto:
Conoscete qualcuno dei testimoni elencati? Se qualcuno li conosce alzi la mano.
Nessuno della giuria la alzò. Il giudice Melville aveva essenzializzato in quaranta domande  il questionario per i giurati , restringendolo a sole sette pagine, dal centinaio iniziale. In maniera serrata, nella generale spasmodica attesa, si avviava uno tra i più grandi processi del secolo.

La quotidianità però non è come nei film. Non esistono eroi, superuomini, personaggi da videogame. Michel Jackson era un ragazzo invecchiato, stressato, con il cuore che arrancava sotto i colpi del veleno farmacologico. Aveva voglia di concludere al più presto il suo calvario, essendo meno penoso sapere a quale morte si è condannati piuttosto che aspettarla. Aveva pensato nelle notti insonni ai suoi figli, perfezionato un testamento già redatto nel 2002,  sull’orlo di un precipizio pregava di ascendere librandosi come uccello. La fine non gli faceva più così paura. Ma il suo corpo, accumulando tensioni, il 15 febbraio 2005, mentre andava ad una udienza, si ribellò.
Mister Jackson! –  gli infermieri lo sorressero perché  stava per cadere.
Fu portato d’urgenza al Marian Medical Center  di Santa Maria. Gli riscontrarono una febbre influenzale,  in realtà alimentata dall’ansia.  Lo ricoverarono. A tenergli compagnia fu la sua musica che ascoltava in cuffia, in un dormiveglia agitato, sotto le coperte. Piangeva al suono di “Cry”, tratta dall’album “Invincibile”,  come lui ormai era certo di non essere.

Michael Jackson – Cry

(continua)

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