Privatizzazioni. Via libera alla vendita di Enav e Poste

ROMA – Il Consiglio dei Ministri ha approvato due decreti legge per la determinazione dei criteri di privatizzazione e delle modalità di alienazione della partecipazione detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze nel capitale di Poste (che assicura 26 miliardi di ricavi annui) e Enav (Ente nazionale assistenza al volo).

Il decreto approvato dal governo prevede, per Enav “l’offerta pubblica quale percorso prioritario da perseguire, in presenza di un adeguato contesto di mercato”. Lo afferma il comunicato di Palazzo Chigi, che individua, quale alternativa all’Opv (offerta pubblica di vendita) “una trattativa diretta”.

Il governo, su indicazione del premier Matteo Renzi, e del ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha deciso di mettere sul mercato “fino al” 40% delle Poste e 49% dell’Enav. In entrambi i casi la maggioranza resterà in mano al Ministero dell’Economia. Diverse però le opzioni aperte: nel caso delle Poste, infatti, si indica la sola via dell’offerta al pubblico, quindi della quotazione. Nel secondo caso invece, non si esclude di affidare il pacchetto a un privato attraverso un’asta competitiva.
Nella nota che ha seguito il Cdm, il governo spiega che il primo decreto, quello per Poste, prevede “l’alienazione di una quota della partecipazione non superiore al 40%, disponendo che tale cessione – che potrà essere effettuata anche in più fasi – si realizzi attraverso un’offerta pubblica di vendita rivolta al pubblico dei risparmiatori in Italia, inclusi i dipendenti del Gruppo Poste Italiane, e/o a investitori istituzionali italiani e internazionali”. Per stimolare la sottoscrizione delle azioni da parte degli stessi dipendenti, il decreto prevede una loro incentivazione, avranno cioè diritto a vantaggi in termini di prezzo o privilegiate modalità di finanziamento.
Poco più di una settimana fa, il gruppo postale ha provveduto al ricambio manageriale, con la nomina di Francesco Caio come amministratore delegato, mentre a cavallo tra aprile e maggio, l’assemblea aveva indicato Luisa Todini come presidente: questi sono i protagonisti che avranno il compito di quotare Poste Italiane.
Per quanto riguarda l’Enav, il governo propone sia la quotazione che la trattativa diretta per la vendita a un soggetto terzo attraverso un’asta. La società, che ha chiuso il 2013 con il miglior bilancio di sempre (utile oltre 50 milioni, +9,4% sul 2012 nonostante il momento difficile del traffico aerei), è sicuramente un’occasione proficua per gli operatori che si trovano già nel settore. In questo caso, però, ci sarebbe un conflitto da risolvere, visto che il fondo è finanziato in parte dalla Cdp (Cassa depositi e prestiti: è una società per azioni a controllo pubblico che gestisce una parte consistente del risparmio nazionale, il risparmio postale) e a sua volta è azionista degli scali di Napoli, Torino e Milano.
“L’azienda è sana, riconosciuta a livello mondiale, con importanti margini di crescita. E’ pronta a qualsiasi sfida, compresa la quotazione in Borsa” ha commentato a caldo l’amministratore delegato Massimo Garbini.
Resta comunque “prioritaria” la via che porta all’offerta pubblica, “in presenza di un adeguato contesto di mercato”. Scrive il governo infatti che “si prevede la cessione di una quota che assicuri il mantenimento in capo allo Stato di una quota di controllo assoluto (51%). Per assicurare la massima flessibilità” al Tesoro “lo schema di decreto prevede che l’operazione potrà essere effettuata anche in più fasi, ricorrendo, anche congiuntamente, a un’offerta pubblica di vendita (rivolta al pubblico dei risparmiatori in Italia, inclusi i dipendenti di Enav e delle sue controllate, e/o a investitori italiani e istituzioni), e/o a una trattativa diretta da realizzare attraverso procedure competitive e comunque assicurando che non insorgano situazioni di conflitti di interessi”. Anche per Enav sono previsti incentivi per i dipendenti in caso di offerta pubblica di vendita.

Si potrebbe provare a prevedere le possibili conseguenze di questa vicenda guardando ai risvolti, positivi e negativi, che ha portato la medesima decisione presa già in precedenza da altri Paesi. In Inghilterra, per esempio, la privatizzazione del gruppo postale Royal Mail è costata ai contribuenti quasi un miliardo di euro: la quotazione delle azioni era stata fissata a un prezzo massimo di 260-330 pence (un centesimo di sterlina), un prezzo bassissimo che voleva però attrarre “investitori con orizzonti a lungo termine”, nonostante i ripetuti avvisi degli esperti secondo cui i titoli valevano di più. Prese così il via a una corsa all’acquisto da parte degli speculatori, che fecero balzare il titolo di oltre il 38% nel primo giorno di contrattazioni, generando 750 milioni di sterline di mancati introiti per i contribuenti. Il prezzo era talmente sottovalutato che la domanda fu 23 volte più alta dell’offerta. Era stato inoltre criticato il ruolo delle banche selezionate dal governo come consulenti dell’operazione che “non si sono impegnate a fare fruttare la vendita, danneggiando i contribuenti” e nonostante ciò hanno incassato dallo Stato 12,7 milioni di sterline. Le critiche alla privatizzazione delle poste inglesi non riguardano solo il valore del gruppo: la Bbc ha rivelato pochi mesi dopo la quotazione, che 1.600 dipendenti rischiano il licenziamento, secondo quanto previsto da un piano di riorganizzazione che punta a risparmiare 50 milioni di sterline l’anno. Royal Mail ha precisato che i tagli riguarderanno i manager e non i postini o gli impiegati, ma questo non è servito a calmare i sindacati, che hanno annunciato mobilitazioni contro i piani della società. 

Il governo inglese respinge le critiche e difende la privatizzazione, riportando l’esempio dei successi di Belgio e Germania. Nel caso di Bruxelles, il governo belga ha venduto nel 2006 poco meno del 50% del servizio postale per 300 milioni di euro, una cifra che, per alcuni, risultava troppo bassa. In realtà la mossa si è rivelata favorevole perché il risultato, arrivato subito dopo la parziale privatizzazione, ha dimostrato che il gruppo è tornato in utile e ora ha un margine di profitto del 17 per cento.
Per quanto riguarda Berlino, invece, la privatizzazione del servizio postale può essere considerato un vero successo internazionale. A differenza del caso inglese, infatti, il titolo di Deutsche Post, che nel primo giorno di contrattazione ha guadagnato soltanto l’1%, ha registrato acquisti in graduale crescita e il valore di mercato della società è salita dai 23,05 miliardi del 2000 agli attuali oltre 32 miliardi. I sostenitori della privatizzazione del gruppo tedesco sottolineano inoltre l’impennata del fatturato, salito a 55 miliardi nel 2013 dai 22,3 miliardi del 1999. L’operazione, secondo un report diffuso nel 2011 dall’organizzazione di ricerca canadese Montreal Economic Institute sui servizi postali in Europa, ha avuto un impatto positivo anche sui prezzi dei francobolli tedeschi, scesi del 17%. Il gruppo di Berlino ha inoltre comprato sette società del settore postale in tutto il mondo, ha fondato un portale di shopping online e ha acquisito una partecipazione in un’azienda di e-commerce tedesca oltre che in diverse società estere attive in vari settori.
Più controversa è stata invece la privatizzazione delle poste olandesi, risalente al 1989, che ha portato alla chiusura del 90% degli uffici postali. Ora in Olanda esistono quattro diverse compagnie che consegnano la posta in orari diversi e a prezzi differenti. Non è stata una buona mossa, poi, la separazione delle poste olandesi dal gruppo Tnt e la successiva quotazione della nuova società, la cui capitalizzazione si è più che dimezzata da 3,06 miliardi a poco più di 1,4.

L’esperienza internazionale insegna quindi che privatizzare non equivale a imboccare la strada giusta per aumentare l’efficienza, ma può mettere a rischio molti posti di lavoro senza ottenere risultati d’impatto. Di sicuro però la proprietà pubblica non assicura una buona gestione.
Lo dimostra il caso americano, dove lo United States Postal Service (Usps) ha accumulato oltre 40 miliardi di perdite dal 2006 a oggi e prevede che il calo aumenterò sempre di più.  I dirigenti hanno chiesto una completa revisione delle norme che includa un diverso metodo di consegna, maggiore controllo sul personale e più flessibilità nella determinazione dei costi dei prodotti e dei servizi. La privatizzazione del gruppo, di cui si discute da molti anni, potrebbe risollevare i conti grazie alla chiusura delle attività meno redditizie e allo sviluppo di prodotti innovativi. Le stesse poste hanno ammesso che questa è una strada da considerare per provare a riportare il gruppo in utile. Il dibattito intorno alla privatizzazione però trova il Congresso sfavorevole, poiché teme che la privatizzazione porterebbe alla chiusura degli uffici postali in perdita, mettendo a rischio la capillarità delle consegne, e all’avvio di attività che non hanno a che fare con la posta. Anche una buona parte dell’opinione pubblica è schierata contro la privatizzazione, come dimostra la polemica sollevata in questi giorni dall’accordo raggiunto tra Usps e il rivenditore di forniture per ufficio Staples, in base al quale quest’ultimo potrà offrire alcuni servizi disponibili ora soltanto negli uffici postali. I sindacati sono scesi in piazza denunciando che l’operazione mette a rischio molti posti di lavoro pubblici ed è “un grande passo verso la privatizzazione”.

Non rimane che sperare in un finale positivo per il bilancio del nostro Paese, che non nasconde il bisogno di una urgente ripresa, prendendo esempio magari dalla Germania. C’è da aggiungere però, che l’economia tedesca è visibilmente meglio organizzata e più produttiva. Sarà quindi molto difficile per noi uguagliare un tale successo.

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