Le motivazioni addotte sono il perdurare della crisi del settore Innovazioni Tecnologiche, le difficoltà nel reperire commesse nella Pubblica Amministrazione, l'ammessa incapacità nell'aprire nuove prospettive di mercato.
I problemi della Sistemi Informativi sono strettamente collegati al declino dell'impegno della multinazionale IBM nel mercato italiano.
Negli anni '90 IBM produceva nel nostro paese hardware e software, occupando oltre 13mila dipendenti in vari centri anche d'eccellenza. Da allora, la smobilitazione è stata costante, con licenziamenti collettivi ed esodi incentivati, che hanno portato l'attuale numero di occupati nelle aziende del gruppo a circa 3mila addetti.
La Sistemi Informativi nasce nel 1979 a Roma come azienda autonoma, crescendo costantemente nel tempo, e a metà degli anni '90 viene acquisita da IBM, ma l'acquisizione ha comportato la riduzione dei margini di autonomia e di dinamismo manageriale.
Nel 2013 il bilancio era in rosso di circa 3 milioni, su un fatturato totale di 100 milioni. Si è proceduto alla prima operazione di macelleria sociale, sfruttando l'ammortizzatore sociale della cassa integrazione per scaricare le inefficienze sui lavoratori, 292 dei quali sono stati tenuti a casa per un anno.
Nel periodo della cassa integrazione, il sindacato si è battuto per avere un piano industriale che rilanciasse l'azienda e garantisse l'occupazione. Questo piano, definito dalla stessa azienda "The Last Chance", alla fine è stato prodotto, ma è rimasto un libro dei sogni.
L'epilogo dei 156 licenziamenti era il destino che IBM aveva scritto per Sistemi Informativi, ma non è detto che sia finita qui. Cos'altro sta riservando IBM alla Sistemi Informativi?
I lavoratori chiedono alla casa madre e al management aziendale di ritirare la procedura di licenziamento collettivo. Esistono soluzioni non traumatiche in termini occupazionali, come i Contratti di Solidarietà, che potrebbero essere utilizzati per attuare quel cambio di rotta annunciato nel piano industriale, ma che IBM non ha voluto realizzare.
L'alternativa è gettare 156 famiglie nella disperazione di un mercato del lavoro che poco ha da offrire, e nulla fa presupporre che possa servire a salvare le restanti 802.