Il rischio paese sintetizza tutte le debolezze di Piazza Affari

TRIESTE – «Borse col fiato sospeso ed occhi puntati sulla Fed» titolavamo ad inizio settimana, con gli investitori a ragionare su quali potessero essere le aspettative in dote all’ottava che si conclude oggi: i dati sull’occupazione Usa (148.000 posti di lavoro creati contro aspettative per 180.000) hanno evidenziato un tasso di disoccupazione numericamente in decrescita ma anche una minor partecipazione alla forza lavoro, un dato deludente che ha elevato la probabilità di veder slittare all’anno prossimo l’inizio del tanto paventato “tapering”, la progressiva riduzione di circa 85 miliardi di dollari al mese che la Fed, la banca centrale americana, continua ad iniettare nel sistema per sostenere finanza ed economia.

Così, all’insegna del vecchio adagio che recita «when bad news is good news» (quando le cattive notizie sono buone notizie), è tornata l’euforia a Wall Street e, con essa, le vendite della moneta verde per finanziare gli acquisti sui titoli, favorendo così una debolezza della valuta che si è rivelata un vero e proprio toccasana per le esportazioni, stante il un momento di debolezza della domanda aggregata interna.

Allo stesso tempo, sull’altra sponda dell’Atlantico, abbiamo potuto assistere ad un atteggiamento assai più moderato da parte delle Borse europee, preoccupate tanto per lo stato di salute delle banche cinesi, che potrebbero avere in bilancio molti più debiti inesigibili di quanti non appaiano, quanto per il continuo rafforzamento dell’euro, a livelli non più tollerabili oltre gli attuali; l’inizio dei confronti per stabilire le regole a cui improntare la vigilanza bancaria europea e la prossima pubblicazione delle minute della Bank of England (BoE), che potrebbero richiedere una revisione nella “forward guidance” rilasciata da Carney ad agosto, aggiungono ulteriore complessità al già articolato quadro del Vecchio Continente.

La decisione della Federal Reserve di non avviare il “tapering” lo scorso settembre sembra dunque basarsi sulla necessità di avere ulteriori conferme della solidità della ripresa economica statunitense, cioè nell’esigenza di verificare una più lunga serie di dati macroeconomici positivi prima di variare delicate politiche monetarie, tanto più che il compromesso raggiunto al Congresso tra bilancio e tetto debito è di natura transitoria: Janet Yellen prenderà il posto di Bernanke alla guida della Fed a gennaio e, poiché non è consuetudine dei governatori centrali cambiare direzione di politica monetaria in scadenza di mandato, le prossime date nodali che dovrà gestire saranno il 15 gennaio (in coincidenza con l’esaurimento dei fondi del Governo in carenza di un altro accordo) ed il 7 febbraio (termine ultimo dell’innalzamento del tetto sul debito).

Il crollo dell’indice sulla fiducia dei consumatori elaborato dall’università del Michigan al livello più basso da dicembre dell’anno scorso, ad ottobre 73,2 punti contro i 77,5 di settembre, oltre a deludere gli analisti sottolinea come nel terzo trimestre del 2013 si evidenzino segnali di miglioramento nei dati economici di Regno Unito ed Europa contro un lieve indebolimento dell’attività economica statunitense.

Il livello di inflazione persistentemente ridotto ed una fase di risveglio economico più lunga del solito, imputabili tanto al risanamento patrimoniale quanto ad un tasso di crescita inferiore alla media, danno all’Eurozona prospettive di ulteriori progressi nel 2013 e nel 2014 ma dipendono principalmente dal miglioramento dei dati sulle esportazioni, stante la mancanza di credito, incentivi fiscali o svalutazione valutaria per innescare la ripresa.

Ad ottobre l’indice PMI manifatturiero (stima flash) pur scendendo in Francia si è confermato in espansione sia in Germania che nell’Eurozona, mentre quello PMI dei servizi (sempre stima flash) è risultato in generale peggioramento; in Italia ulteriore calo della fiducia dei consumatori, particolarmente marcata riguardo alla componente economica, mentre il dato è in leggero miglioramento per la Zona Euro, confermando le attese degli analisti.

Sempre in tema di Bel Paese, l’Eurostat ha comunicato che alla fine del secondo trimestre del 2013 il rapporto tra debito e PIL è balzato al 133,3% secondo nella Zona Euro soltanto a quello della Grecia; non sorprende quindi che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale sui PIL mondiali, l’Italia sia uscita dai primi otto Paesi per ricchezza (il così detto G8, nel quale la permanenza è però garantita per ragioni politiche) dopo averne occupato la sesta piazza negli anni Settanta, cedendo poi progressivamente il passo alla Cina (2000), al Brasile (2010) ed oggi anche alla Russia. Un declino che, se non arginato in tempo, vedrà il nostro paese uscire dalla top ten mondiale entro 5 anni, scavalcato da Canada ed India e relegato all’undicesimo posto, quello per cui competono Spagna e Corea del Sud.

In questa Caporetto della prosperità, l’ultimo studio elaborato da Mediobanca su “Indici e Dati” evidenzia che Borsa Italiana si è ridotta ad una “piazzetta” che vale meno dell’1% sul mercato azionario globale: il nostro listino occupa oggi la 23esima posizione nella classifica mondiale dopo l’ottavo posto degli anni “ruggenti” di inizio millennio, unica piazza mondiale (su 28 totali) ancora in rosso rispetto ai livelli di fine 2002 con un passivo del 5,6%; al nostro confronto l’Indonesia, in poco più di 10 anni, ha guadagnato complessivamente il 957%.

Ultima seduta di ottava negativa per i mercati asiatici, influenzati dalle forti perdite della Borsa di Tokyo (-2,75%), trainata al ribasso dall’apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro Usa: le società nipponiche che hanno beneficiato nella prima metà dell’anno della debolezza della valuta nazionale ora temono che il recente andamento del cambio possa incidere sulle aspettative degli utili di fine anno; né il quarto incremento consecutivo dell’inflazione, a settembre salita dello 0,7% rispetto allo stesso mese del 2012, è bastato a sostenere gli acquisti secondo un trend che soddisfa il Governo, pur non significando che la deflazione, principale freno all’economia del Paese, sia finita.

Le tensioni sul mercato monetario hanno favorito anche le vendite sui listini cinesi, con Shanghai ed Hong Kong oggi a perdere rispettivamente l’1,45% e lo 0,63%.

Sessione negativa anche per le principali Borse europee, segnate sin dalle prime battute da ribassi dovuti al condizionamento che le negative trimestrali di alcuni importanti market mover come Renault, Volvo e il colosso del lusso Kering hanno avuto sui listini; a metà seduta l’arretramento in ottobre dell’indice Ifo (che in Germania misura la fiducia degli imprenditori) si è scontrato con le attese di un mercato che puntava ad un progresso, condizionando definitivamente l’esito della seduta in tutto il Vecchio Continente, fatica a rialzare la testa: Londra chiude in rialzo dello 0,12% e Francoforte, dopo aver toccato un nuovo record superando per la prima volta la soglia dei 9.000 punti, ripiega sulla parità in chiusura; Parigi (-0,08%) sostanzialmente invariata, Madrid cede l’1%. 

Giornata decisamente negativa per Piazza Affari (FTSE Mib -1,45%, FTSE Italia All Share -1,32%), appesantita dalle cattive performance di alcuni titoli e dalla pessima giornata dei bancari che hanno annullato la timida ripresa delle vendite al dettaglio ad agosto.

Seduta difficile soprattutto per Telecom Italia (-6,41%), di gran lunga il titolo peggiore tra quelli a elevata capitalizzazione: dopo diversi passaggi in asta di volatilità sulle ipotesi di un prossimo aumento di capitale, la società ha dichiarato che le indiscrezioni su «presunte operazioni di aumento di capitale, dismissioni di asset, cambiamenti della politica di dividendo» sono «illazioni giornalistiche» che, in quanto tali, «non è in condizioni di commentare».

Tra gli altri titoli in difficoltà Mediaset (-3,16%), Fiat (-2,95%) ed Autogrill (-3,35%).

In sensibile ribasso anche il comparto dei bancari, con cali superiori ai 3 punti percentuali per Popolare dell’Emilia Romagna (-3,05%), Banco Popolare (-3,88%) ed Ubi Banca (-3,52%); più contenute le flessioni di Unicredit (-2,12%), Monte dei Paschi di Siena (-2,7%) ed Intesa Sanpaolo (-1,21%).

Torna a pesare il rischio paese con la risalita dello spread, la differenza di rendimento tra il Btp ed il Bund con scadenza a dieci anni, che torna sopra la soglia dei 240 BP (Basis point, punti base) spingendosi in chiusura a 246, per un tasso in rialzo al 4,22%; stabile invece il differenziale tra il Bonos spagnolo (decennale) ed il Bund tedesco avente stessa scadenza che si conferma a 242 Bp, per un rendimento del titolo iberico del 4,18%.

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