Venezia 70. La turris eburnea della giuria

VENEZIA – Senza entrare nel merito dei film che sono stati insigniti a Venezia, quest’anno, più di altri, salta agli occhi, la soggettività delle scelte di una giuria di professionisti che ha dato un riconoscimento riduttivo a un’opera che, oltre ad  avere contenuto e grande tecnica, potrebbe piacere al pubblico. Sto parlando di “Philomena” del britannico Sthephen Frears.

Fulvia Caprara, su “La stampa”, paradossalmente, annotava che l’unica “colpa” di questo film avrebbe potuto essere quella di andar bene al box office. Paolo Mereghetti su “Il corriere della sera”  ha messo nero su bianco che, Sacro Gra a parte, “ l’insieme degli altri premi privilegia un cinema fin troppo attento ai valori formali, a un rigore estetico che da solo non è sufficiente a dare un senso e a rendere necessaria un’opera. Evidentissimo per il taiwanese “Stray dogs” (che con i suoi interminabili piani fissi non cerca il ‘dialogo’ con lo spettatore ma solo la sua ammirazione. O il rifiuto)”. Ernesto G. Laura, storica colonna della critica italiana, dopo essersi detto dispiaciuto per l’indifferenza verso Amos Gitai, ha affermato: “Le giurie sono strane. Philomena avrebbe meritato un premio al film o una coppa Volpi”.  Riassumendo l’umore di parte della stampa,  Michele Gottardi scriveva su “La nuova”che i premi a Philomena  non sarebbero serviti perché “piacerà a tutti e forse vincerà un’Oscar”, aggiungendo che è stato premiato un cinema diverso.  

Quali prerogative deve avere un film per essere diverso? Chi è stato alla Mostra ha toccato con mano quanto, alla proiezione di alcuni lavori in concorso,  la lentezza prolissa delle inquadrature abbia fatto uscire anzitempo dalle sale persino addetti e cinefili. Cosa è l’arte se non ha la capacità di coinvolgere? Un’opera che contenga elementi universali, tali da sedurre il grande pubblico ha qualcosa in meno?  Gli autori  fanno film soprattutto per se stessi?

Io credo che tra una pellicola commerciale, vale a dire mancante di stile e profondità, e una con rigore autoriale, la differenza salta agli occhi: se, oltre allo spessore contenutistico, il talento narrativo filtra oltre lo zoccolo duro degli intellettuali, il film è completo. Non riconoscerlo, non è pericoloso per la sopravvivenza del cinema stesso?

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