Se anche il Dragone diventa liberista

ROMA – Per comprendere ciò che sta accadendo nella Cina di Xi Jinping, bisogna rispolverare un celebre insegnamento del padre del turbo-liberismo in salsa cinese. Asseriva, infatti, Deng Xiaoping: “Non mi importa di che colore sia il gatto, purché acchiappi i topi”. Il che, a pensarci bene, la dice lunga su ciò che è avvenuto a livello globale nell’ultimo trentennio.

La Cina denghista, difatti, era reduce dal trentennio di Mao: un’epoca nella quale, da quelle parti, il solo fatto di pronunciare la parola “mercato” poteva costare anni di prigione o di lavori forzati, oltre che la gogna, la derisione e il più assoluto isolamento sociale.

 

Poi è arrivato il liberismo, il tragico vento rivoluzionario del duo Reagan-Thatcher e anche la Cina, mano a mano, si è convertita al “dirigismo di mercato”, inventandosi la formula del “comunismo capitalista”, acquistando una parte consistente del debito pubblico americano, costringendo l’Occidente a inventarsi, per sopravvivere, una globalizzazione scellerata e nemica dei diritti umani e riuscendo, nell’arco di un decennio, nell’impresa di spostare il proscenio dall’asse euro-atlantico all’asse sino-americano, creando una diarchia che ha fatto sì che negli ultimi cinque anni tutti i principali eventi a livello mondiale siano avvenuti a migliaia di chilometri di distanza dall’Europa.

 

In poche parole, il Vecchio Continente ha pensato bene di suicidarsi, seguendo un modello socio-economico completamente sbagliato, e la potenza destinata a divenire predominante nel corso di questo secolo non si è lasciata sfuggire l’occasione, arrivando a superare in molti campi anche gli Stati Uniti e lanciando la propria sfida per la conquista di un’egemonia che oramai, stando a ciò che rivela la maggior parte degli studiosi, è destinata a compiersi nel corso del prossimo decennio.

A meno che la Cina non decida di commettere i nostri stessi errori, ossia di sbagliare tutto; e la scelta di Xi Jinping, purtroppo per loro, sembra andare proprio in questa direzione.

Perché non basta parlare di “stadio primario del socialismo” e spiegare che “l’obiettivo generale delle riforme approvate è migliorare e sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi e portare avanti la modernizzazione delle capacità e del sistema di governo del Paese” quando, in realtà, il Terzo Plenum del Partito Comunista Cinese ha deciso una marcata svolta in senso liberista, diminuendo l’influenza dello Stato e accrescendo il potere del mercato sull’economia, illudendosi che basti la potenza soffocante e totalmente anti-democratica del partito unico per scongiurare le drammatiche conseguenze che hanno squassato il Vecchio Continente a partire dagli anni Ottanta.

 

Non è un caso, infatti, se già nel luglio dell’81 Berlinguer denunciasse il degrado della politica e dei partiti, il suo progressivo e inarrestabile immiserimento culturale e la sua irrimediabile degenerazione in un qualcosa di diverso e altro da ciò che dovrebbe essere. Ponendo tutti i distinguo del caso, la svolta cinese è più o meno dello stesso tenore. Alla base, difatti, c’è sempre lo stesso folle concetto reaganiano secondo cui “lo Stato non è la soluzione ma il problema” e, dunque, va contrastato, indebolito, messo in condizione di non interferire con le mirabili decisioni del mercato, in base a quella visione smithiana che poteva andar bene nel 1776, quando ancora non c’era stata la Rivoluzione francese e il concetto di democrazia era noto solo a una ristretta cerchia di aristocratici di idee liberali, ma non certo oggi, in un mondo che, proprio perché ampio, globale e destinato ad espandersi ulteriormente, non può rinunciare ad avere l’uomo come cardine e punto di riferimento di ogni azione politica e di ogni scelta economica e sociale.

Peccato che nella Cina di Xi Jinping stia avvenendo l’opposto, sulla scorta di quell’illusione, rivelatasi fallimentare in tutto l’Occidente, che spalancare le porte ai privati possa consentire ai singoli stati di supplire alle carenze e alle inefficienze del pubblico e garantire, al tempo stesso, uno sviluppo armonico e socialmente sostenibile. Peccato che ovunque questa formula abbia preso piede sia avvenuto esattamente il contrario, perché il privato, per sua natura, a meno che non si tratti di Olivetti (e non se ne vedono molti in giro), non ha alcun interesse alla promozione sociale degli esseri umani, alla tutela e salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente e all’affermazione della civiltà del benessere e dei diritti bensì unicamente al profitto, da realizzarsi a qualunque costo, se necessario anche devastando l’eco-sistema, inquinando l’aria, calpestando i diritti e le tutele sindacali e, all’apice di questo processo, sbarazzandosi di tutti i corpi intermedi, in quanto pericolosi ostacoli alla volontà di dominio di chi pratica come unica religione quella del denaro e della ricchezza.

A tal proposito, tanto per fare un esempio, l’economista Zhang Ming ha spiegato in un articolo pubblicato mercoledì scorso da “il manifesto” che il processo di urbanizzazione non può essere un mezzo per promuovere lo sviluppo economico bensì il fine di uno sviluppo regolato, da raggiungere attraverso l’industrializzazione e l’accrescimento della libertà di movimento della popolazione, altrimenti – afferma Ming – se consentiamo al mercato di operare indisturbato, rischiamo una pericolosa concentrazione delle risorse pubbliche di alta qualità in poche megalopoli, dando vita a numerose città fantasma e svalutando, di fatto, il concetto stesso di valorizzazione degli esseri umani e delle loro esigenze vitali.

 

È esattamente così, ma qui torna il celebre motto di Deng: non conta il colore del gatto ma la sua rapacità.  Peccato che in questo modo, ponendo gli uomini perennemente in contrasto, in una competizione feroce e dissennata gli uni con gli altri, si degradi l’umanità al punto da rendere impossibile qualsiasi forma di comunità e, meno che mai, quello sviluppo armonico ed equilibrato cui dovrebbe, invece, tendere l’intero pianeta se vuole sopravvivere.

Condividi sui social

Articoli correlati