John Kennedy, le illusioni disilluse

ROMA – Dallas, cinquant’anni fa. Era il 22 novembre 1963, un venerdì, quando l’America e il mondo furono costretti a fermarsi e a piangere di fronte alla salma di John Kennedy, colpito a morte da tre colpi di fucile sparati non si sa ancora bene né da chi né perché né su mandato di chi, benché tutta la colpa sia stata attribuita a Lee Harvey Oswald, il cui unico peccato, a detta di alcuni studiosi, era quello di essere convintamente comunista e filo-castrista in piena Guerra Fredda.

Tuttavia, poiché la storia del più celebre e amato presidente degli Stati Uniti è nota pressoché a tutti, non è tanto dell’epopea kennediana che vorremmo occuparci quanto, soprattutto, della sua eredità, di ciò che è rimasto dei suoi sogni, delle sue speranze, dei suoi insegnamenti, del suo progetto politico e di quell’idea di aprire una “Nuova frontiera” che purtroppo, nei decenni successivi, non si è mai realizzata.

Perché una cosa è certa: basta rileggere i discorsi di Kennedy per comprendere le ragioni per cui è stato assassinato, per rendersi conto di quanto potesse dar fastidio ai conservatori di ogni ordine e grado, di quanto fosse inviso alla mafia e a coloro che, fino a quel momento, avevano prosperato sulla segregazione razziale dei neri, sull’esclusione e l’emarginazione sociale dei più deboli, sul dolore e la sofferenza degli ultimi, di chi non era in grado di difendersi, di chi, specie per il colore della propria pelle, non faceva mai notizia se non in negativo.

Disse, ad esempio, l’11 giugno del 1963: “Se un americano, a causa della sua pelle scura, non può mangiare in un ristorante aperto al pubblico, se non può mandare i suoi figli alla scuola pubblica migliore, se non può votare per i pubblici funzionari che lo rappresenteranno, se, in breve, non può condurre la vita piena e libera che tutti noi desideriamo, chi tra noi sarebbe felice di condividere con lui il colore della pelle e prendere il suo posto? Chi tra noi si accontenterebbe del consiglio di portare pazienza e aspettare?”.

Due mesi dopo, Martin Luther King avrebbe pronunciato a Washington il celebre discorso dell’“I have a dream” e la battaglia per i diritti dei neri e delle minoranze sarebbe entrata a pieno titolo nell’agenda politica di tutti i paesi, ma Kennedy aveva già preparato il terreno, sfidando un esponente del suo stesso partito (George Wallace, governatore dell’Alabama e segregazionista convinto), per consentire a James Meredith, studente di colore, di entrare all’università e frequentare le lezioni.

Ne “L’America dei Kennedy”, Furio Colombo racconta: “George Wallace ha ricevuto una telefonata dalla Casa Bianca di Kennedy in cui gli è stato detto: <<Delle due l’una: o lei ritira la Guardia Nazionale e lascia entrare il giovane Meredith, come i tribunali americani hanno ordinato, oppure questa sera arriveranno i paracadutisti dell’esercito federale americano>>”. Non solo un uomo buono, dunque, ma – come sostiene ancora Colombo – “un presidente che non ha paura di fare il presidente, che lo fa alla luce e nell’ambito di quei princìpi di vita democratica e di concezione eccezionale della responsabilità di un Paese immensamente potente”.

Non è un caso che queste riflessioni di Colombo risalgano all’aprile del 2004, in piena era Bush, quando Obama era ancora un semplice senatore dell’Illinois e il mondo ribolliva di manifestazioni contro le guerre in Afghanistan e in Iraq, soprattutto alla luce dei primi scandali riguardanti la prigione speciale di Guantanamo e, in particolare, il carcere iracheno di Abu Ghraib, tra violenze, percosse, sevizie, soprusi e vessazioni d’ogni sorta ad opera dei soldati americani coinvolti. Come non è un caso che Colombo, rispondendo alle accuse di chi lo tacciava di anti-americanismo, si domandasse: “Di quale America parli?”.

Indubbiamente, oggi, molte cose sono cambiate: Obama non è Bush e i diritti civili sono al centro del suo pensiero e della sua azione politica, a cominciare da quelli dei neri e delle minoranze che, infatti, oramai votano compattamente democratico. Tuttavia, è altrettanto vero che le nubi dell’era Bush non sono state fugate del tutto, che l’economia è ripartita ma giusto il mese scorso il Paese ha rischiato il default a causa dello “shutdown” imposto dall’irresponsabilità dell’ala oltranzista dei repubblicani, che il liberismo reaganiano è stato notevolmente contrastato ma non del tutto sconfitto; insomma, che Obama sta provando a invertire la rotta ma non ci è ancora pienamente riuscito e forse non ci riuscirà mai.

Per questo, con la morte nel cuore, siamo costretti ad ammettere che dell’America di Kennedy, della sua visione aperta e progressista della società e del domani, sia rimasto davvero poco: colpa del liberismo, certo, colpa di Nixon e della sua pessima condotta umana e politica, senza dubbio, colpa dei due Bush, ci mancherebbe altro, ma anche colpa di una sinistra timida, spaventata, per troppo tempo incapace di trasmettere le proprie idee e dettare la propria agenda di priorità, come se se ne vergognasse, come se avesse il timore di opporsi a una barbarie che ha condotto l’intero Occidente sull’orlo del baratro. Colpa, in poche parole, soprattutto del clintonismo che non ha mai avuto il coraggio di essere compiutamente di sinistra, contribuendo a condurre il peggior presidente della storia, ossia George W. Bush, per ben due volte alla Casa Bianca.

D’altronde, Kennedy si definiva realisticamente “un idealista senza illusioni”, un sognatore rassegnato all’asprezza di una quotidianità che all’epoca era senz’altro assai meno soffocante di quanto non lo sia attualmente.

Per concludere con un piccolo messaggio di ottimismo, ci sentiamo di dire che dei suoi insegnamenti ci è rimasta quanto meno la speranza, l’idea che impegnandosi e chiedendosi cosa possa fare ciascuno di noi, e la comunità nel suo insieme, per il proprio paese qualcosa, sia pur in piccolo, sia pur lentamente e con molta fatica, possa cambiare.

Per il resto, tutto è svanito, tutto si è rivelato solo una tragica serie di illusioni disilluse.

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