Taranto. Confindustria scende in piazza. Abbiamo bisogno di Tempa Rossa?

TARANTO – Venerdì a Taranto manifestava Confindustria, per dire “No alla città dei no”. ll riferimento va  ovviamente ai comitati contro la grande industria, ma in questo momento soprattutto contro il comitato No Tempa Rossa che lotta contro il progetto di raddoppio della raffineria ENI di Taranto e di lavorazione del nuovo petrolio in arrivo dalla Lucana, progetto che porterebbe a moltiplicarsi il numero di petroliere presenti nel golfo e anche, ovviamente l’attività dell’Eni.

Dunque, Confindustria rivendica la possibilità di nuovi posti di lavoro mediante questo progetto e la grande industria. Posti che, però, metterebbero nuovamente a repentaglio un ecosistema già abbastanza disastrato per tutti i motivi che sappiamo.
Analizziamo la situazione economica di Taranto e soprattutto il binomio ambiente-lavoro. Sono davvero in antitesi a Taranto?
Nel 2012 il tasso di disoccupazione (disoccupati + inoccupati) era del 44,55%, circa 110.000 persone.
Numeri che la Gazzetta del Mezzogiorno definì da “olocausto finanziario”.
Taranto ha l’industria siderurgica più grande d’Europa, un cementificio, una raffineria, un arsenale navale, un porto in una zona strategica, basi militari e inceneritori sparsi qua e là. Alcuni potranno dare la colpa alle inchieste della magistratura che non permettono all’Ilva di operare al 100% e dunque la proprietà è costretta alla cassa integrazione o al licenziamento. Eppure, secondo la Camera di Commercio di Taranto, nel solo 2013 (anno di crisi nera per l’Ilva) le aziende under 35 sono aumentate dell’11,10%.

Manovre del governo e della regione per finanziare le imprese giovanili? Anche, indubbiamente, ma anche mentalità nuova e imprenditoriale, mentalità EMANCIPATA che inizia a serpeggiare anche tra i giovani tarantini, una mentalità che  a Taranto non c’era mai stata, violentata da una mentalità basata sulla sopravvivenza, anche a costo del compromesso con la salute e con la rovina del territorio. Una mentalità imprenditoriale giunta a Taranto diffusasi solo di recente, assieme all’onda di democrazia dal basso e partecipativa di cui comitati e le associazioni si sono fatti portavoce.


Ma l’industria a Taranto, quanto vale e quanto da?
L’Ilva più indotto è origine di circa il 70% dell’intero PIL dell’area. Taranto è praticamente un laboratorio, un perfetto modello di suicidio politico economico in una zona che aveva bisogno, invece di tutt’altro. Il dato è inquietante, perché l’economia tarantina è monosettoriale, e per di più, in un settore in cui fare concorrenza è assolutamente impossibile. La concorrenza porta ricerca, porta innovazione e se tra aziende agricole, conserviere, commerciali è possibile, come può un tarantino competere, anche se volesse, con la siderurgia di quella portata? Inoltre, l’inquinamento fuorilegge dell’Ilva ha portato all’impossibilità di utilizzare nel raggio di 20 km dallo stabilimento campi, pascoli, acque. Taranto non può allevare i propri mitili, non in maniera così massiccia da far nascere un’industria conserviera, non può allevare le proprie pecore così tanto da far nascere qualcosa di più del semplice pascolo, né può coltivare le proprie olive e le proprie viti per commerciarle in maniera seria, perché manca la terra.


E non solo, ma per tanti anni è mancata anche la spinta a ribellarsi proprio per via di quel 70% del pil. L’ilva, dunque, da un lato è origine del 70% del pil prodotto a Taranto, dall’altro, però, i tarantini occupati grazie all’ilva sono pochissimi. L’impresa di capire quanti all’interno di quel 55% di lavoratori dipenda dall’llva è ardua, quasi impossibile, ma sicuramente non sono più della metà della popolazione tarantina.
Il discorso, dunque, non è, come vorrebbero far credere, quello dell’approvare o meno un progetto, è il modello stesso che è fallimentare. Puntare sulla siderurgia pesante e sulle industrie inquinanti da un lato danno lavoro, ma dall’altro lo tolgono, lo tolgono a studenti che non trovano sbocchi o non trovano la propria facoltà perché l’Università è sviluppata pochissimo, lo tolgono ad agricoltori, allevatori, agli operai, agli ingegneri, agli impiegati che potrebbero trovare lavoro nelle aziende alimentari o turistiche o dei beni culturali.


Da quando Taranto ha scoperto il suo dramma, c’è chi cerca disperatamente di emanciparsi da questo gioco, come Vincenzo Fornaro che dopo l’abbattimento dei suoi capi per via della diossina ha convertito la sua masseria alla coltivazione di canapa, innovazione, dunque emancipazione. Il tasso di disoccupazione a Taranto (quello giovanile è anch’esso al 40% secondo gli ultimi dati) è spaventoso proprio perché c’è malgrado tutto. Malgrado la devastazione, malgrado le indagini epidemiologiche che svelano un tasso di tumore allucinante, o forse proprio a causa di ciò. Dunque, siamo sicuri di difendere il “lavoro” in senso generale?  Perché secondo i dati il discorso è a zero.


L’industria pesante attualmente da tanto lavoro, quanto ne toglie, il problema è che non toglie solo il lavoro, ma toglie anche i figli dalle braccia delle loro madri che, a causa dell’inquinamento, nascono già malati.
Toglie possibilità ai ragazzi di restare a Taranto e porta una città alla morte demografica entro poco tempo. A Taranto i dati dimostrano che se non c’è l’ambiente, per almeno 110.000 persone il lavoro non c’è.
Se davvero si vuole il lavoro, si deve iniziare a lavorare per la bonifica di questa città, per attività che stimolino la ricerca, l’innovazione come agricoltura biologica, università, aziende basate sulla robotica come quelle nate di recente.
Difendere un progetto che porta al rischio di ulteriore distruzione dell’ecosistema, ahimè, non vuol dire difendere il lavoro, vuol solo difenderne una parte, ma a quale prezzo? Il modello portato avanti è fallimentare per il semplice fatto che il binomio ambiente-lavoro a Taranto non esiste, proprio perché una città col 45% di disoccupati in Occidente non si può certo dire che sia una città che difende il lavoro!
Non va solo difesa la città da Tempa Rossa, va cambiato l’intero sistema perché c’è chi dice no a Tempa Rossa, no all’inquinamento delle aziende pesanti, ma c’è anche chi coi fatti i(n buona o in cattiva fede) dice no ai giovani che vogliono rimanere, no agli esperti del turismo, no agli archeologi, agli agricoltori, agli allevatori, ai mitilicoltori, all’università, alla ricerca, dunque, ahimè, all’emancipazione.

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