“Pastori e Pastoralismo” in Sardegna: se muore il pastore muore la Sardegna

CAGLIARI – I pastori il 23 settembre scorso sono ritornati in Piazza a Cagliari. Come fanno oramai da anni. A ben vedere assistiamo a una vera e propria rivoluzione sociologica e persino antropologica: che smentisce i luoghi comuni sui pastori individualisti, restii alla collaborazione, isolati, soli e solitari nelle loro aziende e nei loro ovili.

In periodiche assemblee si riuniscono per discutere, concordare e decidere, collettivamente e democraticamente, obiettivi della vertenza, forme di lotta, iniziative. In migliaia scendono in piazza, organizzati ma senza avere dietro le burocratiche Associazioni tradizionali del mondo agro-pastorale: anzi, spesso contro di loro. Coinvolgendo famiglie e  sindaci  ma anche studenti e lavoratori di altri comparti: tanto che possiamo considerare la lotta dei pastori una vera e propria lotta di popolo e, dunque, non di una sola categoria. Questo, non a caso.

Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: essa infatti ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.

Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli.

Pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l’unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte, della fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che  crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, garantendo la manutenzione di oltre il 70% del territorio isolano.

Oggi corre un serio pericolo: se non di scomparsa, certo di drastico ridimensionamento che potrebbe ridurla ad attività marginale, sia dal punto di vista economico che occupazionale. C’è infatti da chiedersi quante delle 16.000 aziende pastorali oggi presenti in Sardegna potranno ancora “resistere” a fronte della gravissima crisi che attanaglia il comparto. Quanti occupati potranno ancora sopravvivere producendo “in perdita”. Una pluralità di motivi convergono infatti ad acuire la crisi: primo fra tutti il prezzo del latte pagato una miseria. Sostanzialmente come 20-25 anni fa! A fronte dei mangimi che nel frattempo sono quadruplicati, insieme  all’energia e al gasolio. Il prezzo del latte – pur se fondamentale è solo uno degli elementi della vertenza: dalla piattaforma del MPS emergono tutta una serie di richieste e di obiettivi finalizzati all’uscita dalla crisi. Ad iniziare dal credito e la burocrazia: ormai – ha affermato il leader Felice Floris – il pastore passa più tempo negli uffici che nelle campagne!

Se muore il pastore e la pastorizia non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato fra l’altro dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità.

Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici  e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda,

Un patrimonio secolare –scrive l’antropologo Bachisio Bandinu, gran conoscitore delle cose sarde – che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà… Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità.

Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte. 

Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.

Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti. Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile,prima ancora che  economica e sociale. 

Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.

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