Renzi e lo spettro del corporativismo con un partito e un sindacato unico

ROMA –  Se un merito il premier Renzi ce l’ha, è quello di farci ripassare ogni giorno un pezzo di storia, ma purtroppo ci riporta sempre con la mente allo stesso periodo, il più buio per il paese: quello del ventennio fascista.

E così, partendo dall’idea di realizzare un partito nazionale, con le riforme istituzionali e l’italicum ha delineato il premieratoforte. Quindi ha spazzato via i diritti dei lavoratori con il jobs act per garantire quelli dell’impresa, passando poi a cestinare la scuola democratica, per passare alla scuola-impresa, governata solo dal preside manager.

Ora è la volta del sindacato unico.

Insomma, lo scenario che sembra prospettarsi è quello del corporativismo fascista, con un partito unico e un sindacato unico, entrambi enti pubblici amministrativi diretti dall’esecutivo. L’obiettivo è evidente ed è quello di imporre la collaborazione tra lavoratori e imprese ma per rafforzare queste ultime, rendendo il sindacato subalterno ad esse.

In fondo, è quanto già succede nella più grande fabbrica italiana, con l’estromissione della Fiom anche dopo una sentenza della Corte Costituzionale.

Tanto per capire cosa possa significare un sindacato unico, basta ricordare cosa accadde nel ventennio fascista, quando, proprio in forza di quell’unificazione forzata, il sindacato divenne un organo dello Stato.

Diceva Mussolini “Bisogna costruire un fronte unico dell’economia italiana, bisogna eliminare tutto ciò che può turbare il processo produttivo, raccogliere in fascio le energie produttive del paese nell’interesse della nazione”.

E così, con il Patto di Palazzo Chigi, del dicembre 1923, stilato tra Confederazione generale dell’industria italiana e la Confederazione generale delle corporazioni fasciste, si stabiliva che “l’organizzazione sindacale non deve basarsi sul criterio dell’irriducibile contrasto di interessi tra industriale ed operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori, e fra le loro organizzazioni sindacali”.

In tal modo, il sindacato fascista riusciva a imporsi come sindacato di Stato, grazie anche alla distruzione delle leghe operaie e delle strutture sindacali confederali ad opera dello squadrismo, nonché alla volontà della Confindustria e degli ambienti economici di liberarsi, dopo la tensione degli anni 1919-20, dei consigli di fabbrica e del sindacato libero.

Si apriva un’autostrada alla cancellazione di ogni diritto, in nome dell’interesse supremo della nazione.

Infatti, nel 1925, con il Patto di Palazzo Vidoni si sancirono l’illegalità dello sciopero, il riconoscimento istituzionale esclusivamente dei sindacati “di stato” fascisti.

L’anno successivo, con la legge Rocco, vennero stabilite le regole per il riconoscimento dei sindacati di categoria e dei loro vertici, regolamentati i rapporti di lavoro e prevista la creazione di una magistratura del lavoro, che doveva operare sempre “contemperando gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori, e tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”.

La legge Rocco prevedeva pesanti sanzioni e quasi sempre la reclusione in caso di sciopero, specialmente se questo veniva interpretato come uno strumento per influenzare istituzioni dello Stato o pubblici ufficiali, la normativa era particolarmente punitiva per i dipendenti pubblici.

Sulla base del Patto di Palazzo Vidoni, nel 1927, e su precise indicazioni di Confindustria che lamentava l’eccessivo potere e l’arroganza dei dirigenti sindacali delle corporazioni fasciste, il Gran Consiglio varò la Carta del lavoro.

Per la Carta, “L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato, legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato, ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori”.

La corporazione era quindi organo dello stato. Dal 1928 operarono sei confederazioni per grandi comparti, all’interno dei quali agivano le singole federazioni di categoria, mentre sul piano territoriale vi erano le unioni provinciali.

A completare l’architettura istituzionale del corporativismo furono istituiti, nel 1926, il Ministero delle corporazioni, avente il solo “compito giuridico di organizzazione, di coordinazione e di controllo sull’assetto corporativo e professionale” e, nel 1930, il Consiglio nazionale delle corporazioni (presieduto da Mussolini e composto tra gli altri, da diversi ministri e direttori dei medesimi ministeri, dal segretario del partito nazionale fascista, esperti). Il compito di quest’ultimo organismo, in realtà, fu di limitare quello “strapotere” delle corporazioni sindacali e di alcuni loro rappresentanti, come richiesto da Confindustria fin dalla vigilia del varo della Carta del lavoro, perché, come scriveva Bottai, l’obiettivo era “fare dell’impresa capitalistica il centro di ogni valore della vita sociale”.

Ma torniamo ai giorni nostri. Se un premier può affermare che occorre tornare ad un sindacato unico, lo si deve anche al ruolo assunto dai confederali a partire dalla fine degli anni ’70, quando sono stati ora di lotta e ora di governo.

Senza il ruolo assunto dal sindacato confederale di interlocutore collaborativo dei governi non sarebbe stata possibile l’abolizione della scala mobile e, dopo, di una serie di diritti conquistati in decenni di lotte dai lavoratori. Un fenomeno che si è accelerato con la ristrutturazione del sistema produttivo, connessa alla globalizzazione e alla estrema finanziarizzazione dell’economia, agli accordi europei da Maastricht in poi, che hanno portato alla moneta unica, guardando sempre e solo al debito pubblico dei singoli paesi, alle debolezze del nostro sistema paese (debito pubblico, evasione fiscale, sistema produttivo arretrato).

Da queste posizioni via via più concilianti dei confederali è scaturito una sorta di consociativismo, che ha portato: una progressiva precarizzazione del lavoro; un peggioramento del sistema pensionistico; un allentamento delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro; privatizzazioni ed esternalizzazioni, che hanno prodotto solo un aumento del disavanzo pubblico.

La nascita del sindacalismo di base è riuscita solo in parte a contrastare tale stato di cose, da una parte neutralizzata da un progressivo inasprimento della normativa sulla rappresentanza all’insegna del “meno siamo e meglio stiamo”, dall’altra qualcuno ha scimmiottato la triplice sperando di sedersi alla stessa tavola.

Solo così si è potuti arrivare il 10 gennaio 2014 al Testo Unico sulla Rappresentanza Sindacale, sottoscritto da Confindustria e Cgil-Cisl-Uil. Norme che avrebbero dovuto essere varate in Parlamento con una legge dello Stato anziché dai predetti soggetti. Una scelta palesemente antidemocratica e antipluralista, volta a neutralizzare  le altre organizzazioni sindacali.

Con quelle norme, la triplice ha inteso blindarsi ma si è anche autocondannata a divenire sindacato unico di Stato.

Con quell’accordo i sindacati concertativi possono fare cartello sottoscrivendo accordi impossibili da mettere in discussione. Mentre le altre forze sindacali, anche per potersi presentare alle elezioni, devono accettare in toto il TU, con tutte le sue limitazioni al diritto di sciopero e con le sanzioni connesse in caso di violazione, che ricadono direttamente sulle organizzazioni e sui rappresentanti sindacali.

Leggere il predetto TU è davvero “istruttivo” ancorché “illuminante” per capire come oggi Renzi abbia potuto invocare un unico interlocutore.

C’è solo da sorridere amaramente quando, chi ha sottoscritto quell’accordo, oggi finge di scandalizzarsi per le affermazioni del premier.

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