Riconoscere il diritto di cittadinanza è un gesto straordinario di maturazione

ROMA – Il riconoscimento del diritto di cittadinanza a chi nasce sul territorio italiano discusso in commissione affari costituzionali e racchiuso in un disegno di legge, non ha solo un valore giuridico di primo piano, ma assume una valenza simbolica di prim’ordine soprattutto all’indomani della dirompente affermazione di Bergoglio per cui il Papa è figlio di migranti.

Se il figlio di Dio è il figlio di chi è in movimento da un luogo ad un altro il tema dell’appartenenza come presupposto per il riconoscimento dei diritti assume un senso totalmente differente anche per chi cattolico non è. L’essere cittadino è la premessa al riconoscimento di uno statuto giuridico soggettivo che rimanda all’affermazione di diritti legati uno con l’altro e che diventano vuote scatole se cessa la premessa. 

L’esistenza di diversi principi che riconoscono la cittadinanza dimostra che la sua attribuzione è il frutto di un orientamento ideologico proprio di ciascuno stato il quale concede pezzi di sovranità secondo metodi che più rispecchiano la costruzione identitaria dello stesso. Nel nostro ordinamento vale tuttora il principio dello ius sanguinis per cui è italiano il figlio di italiani anche se vive in un altro paese, anche se non conosce una sola parola della nostra sofisticata lingua, anche se non ha mai messo piede nella penisola. Così venne deciso nelle leggi ordinarie che la regolamentano e non sorprende che questa sia stata la scelta del legislatore del 1912 prima e di quello del 1992 in un Paese in cui il tema dell’appartenenza familiare ha sempre prevalso su quello dell’appartenenza ad uno Stato, ad una comunità ad un insieme di regole. Con l’evolversi dei costumi ormai a livello globale anche un principio così fortemente caratterizzante subisce una influenza che ne richiede in qualche maniera il cambiamento. Se si riflette poi sul senso personale di appartenenza di ciascuno di noi, oltre alle origini familiari, emerge in maniera preponderante quello del luogo di nascita e di sviluppo, gli spazi fisici e sociali in cui si sono costruiti i primi rapporti e sperimentato la vita. Il luogo, più che il sangue da solo, sono in grado di incidere profondamente sul senso identitario delle persone ed ecco la necessità di introdurre la regola dello Ius Soli. Ed infatti più banalmente quando si viene interrogati sulle proprie origini prima di tutto si fa riferimento al luogo di nascita e di provenienza proprio piuttosto che quello dei propri genitori. Ciò è tanto più evidente per chi, come me, è figlio di migranti e che con la terra degli avi ha solo un legame fantasioso legato più che altro alle narrazioni che di esso vengono trasmesse dai familiari.

Lodevole dunque questa importante riforma che si sta portando avanti nel nostro Paese in cui l’inclinazione all’accoglienza manifestata in questi tragici momenti di diaspora ha dato una lezione di superiorità morale a molti Paesi facenti parte dell’Unione e non solo. Riconoscere il diritto di cittadinanza ai figli di stranieri che sono nati in Italia è un gesto straordinario di maturazione e di accettazione dei popoli, meno interessante è l’aspetto che lega questo riconoscimento al fatto, come proposto nel disegno di legge da discutere in Parlamento, che i genitori abbiamo un regolare e lungo permesso di soggiorno. Il principio in sé sarebbe anche condivisibile se nel nostro ordinamento il permesso di soggiorno non fosse stato disciplinato dalla sciagurata Legge Bossi-Fini la quale lega al concessione di diritti civili, politici e sociali al fatto di avere un contratto di lavoro, situazione difficoltosa oggi più che ieri.  Al di là del fatto che è antipatico pensare di avere dei diritti sulla base di una valutazione economico patrimoniale dei propri genitori, vi è anche più semplicemente una questione di incostituzionalità di alcune disposizioni contenute nella Bossi-Fini che dovrebbe essere affrontata e che dovrebbe necessariamente stabilire una procedura più ragionevole per la concessione del permesso di soggiorno. In attesa di vedere come si evolverà il dibattito parlamentare in questo senso si potrebbe suggerire agli onorevoli di non perdere di vista il sacrosanto principio che ogni minore è soggetto di diritto e che il destino dei figli non sempre deve necessariamente coincidere totalmente con quello delle madri e dei padri.

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