Germania: passato, presente e futuro di un paese che non muore

ROMA – Tristi giorni per la Germania e per il governo Merkel, scossi dal caso Volkswagen e dell’ondata di discredito, a tratti fomentato ad arte da chi ha tutto l’interesse a gettar fango sull’industria e sul modello di sviluppo tedesco, che ne è seguita.

Tristi giorni e dispiace, visto che oggi ricorre il venticinquesimo anniversario di un evento che ha mutato per sempre gli equilibri del Vecchio Continente, ossia la riunificazione delle due Germanie a quasi un anno dall’abbattimento del muro sovietico che divideva a metà Berlino. Era, infatti, il 3 ottobre 1990 quando, grazie alla sapiente regia di Helmut Kohl, il Paese tornava ad essere unito, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale e la non meno drammatica separazione di un universo sconvolto che stava faticosamente cercando di rialzarsi e di fare i conti con il proprio imbarazzante passato.

Venticinque anni, e oggi la Germania è unanimemente considerata la locomotiva d’Europa, faro e punto di riferimento di un continente senz’anima e senza unità d’intenti, alla costante ricerca di se stesso, diviso da muri invisibili ma non per questo meno pericolosi e distruttivi e, come nel caso ungherese, anche da vergogne di filo spinato che costituiscono la negazione stessa del sogno e del progetto europeo.

Venticinque anni, e un modello di crescita e di sviluppo basato sul capitalismo renano che non ha, però, scongiurato alcune grandi contraddizioni: dall’eccessivo surplus della bilancia commerciale, contrario alle regole comunitarie, alla palese violazione, venuta alla luce nelle ultime settimane, dei limiti delle emissioni di gas di scarico consentiti, al punto che Federico Fubini, sul “Corriere della Sera”, non ha esitato a parlare di “Lehman d’Europa”, paragonando questo scandalo di dimensioni planetarie al tracollo della banca statunitense da cui, il 15 settembre 2008, ebbero inizio la crisi e la recessione economica che si protraggono da ormai sette anni.

Venticinque anni, tre cancellieri e molte riforme, alcune delle quali palesemente sbagliate e dannose, come il famigerato “Piano Hartz” per il lavoro, dal nome del suo ideatore, guarda caso ex dirigente delle risorse umane della Volkswagen, che oggi costituisce un faro per il resto d’Europa quando, in realtà, fra mini-job, flessibilità spinta all’estremo e derive terzaviiste, rappresenta il cedimento definitivo della socialdemocrazia tedesca al liberismo gentile introdotto, nello stesso periodo, da Blair nel Regno Unito, con la conseguenza che tanto oltremanica quanto nella terra di Goethe la destra governa indisturbata da anni e la sinistra, al massimo, può limitarsi a piatire un regime di larghe intese, ossia l’esatta negazione delle sue ragioni storiche e sociali.

Venticinque anni, e la trasformazione di Berlino in capitale d’Europa e di Francoforte in cassaforte e centro nevralgico della sua economia.

Venticinque anni, e il pervicace rifiuto di esercitare una leadership indiscutibile ma, purtroppo, limitata a questioni di piccolo cabotaggio, per lo più a interessi di bottega, senza respiro né prospettiva, come dimostrano sia il processo abborracciato e frettoloso con cui è stata costruita la moneta unica sia la pessima gestione del caso greco e dell’emergenza legata agli affanni della periferia d’Europa, peraltro dovuti anche alle omissioni, ai mancati controlli e alle concessioni senza senso che erano state accordate a quei paesi nel momento in cui l’industria tedesca aveva bisogno di un cortile più ampio nel quale esportare i propri prodotti di medio-alta tecnologia e, dunque, era più che favorevole al loro ingresso senza garanzie credibili all’interno dell’Unione Europea.

Venticinque anni, e il lento ma inesorabile disperdersi di quel capitale di fiducia e autorevolezza acquisito in mezzo secolo, dai tempi di Adenauer in poi, con l’ascesa al potere e il consolidamento del medesimo da parte di una rispettabile figlia dell’est, il cui afflato europeista è troppo flebile rispetto a quanto ne servirebbe in una stagione così delicata, la cui visione del mondo e dei suoi crescenti problemi è troppo provinciale e rivolta alla conservazione del consenso interno e la cui miopia nella gestione dei flussi migratori e delle difficoltà economiche persistenti, anzi aggravatesi pressoché ovunque, è stata alquanto imbarazzante, prima di una reazione umanitaria, dovuta alla tragedia del piccolo Aylan, tardiva e, comunque, insufficiente.

Venticinque anni, e la presa d’atto che la locomotiva d’Europa, dopo essere stata aiutata a rimettersi, in sesto in seguito a un conflitto del quale era pienamente responsabile, e dopo essere stata agevolata, una seconda volta, nel processo di integrazione della ex DDR, è oggi una nazione dimentica dei favori ricevuti, egoista e animata da una volontà di dominio che tanto ricorda le spinte peggiori del Ventesimo secolo, pur non palesandosi sotto forma di carri armati o di affermazione di un regime totalitario.

Venticinque anni, e un pensiero a quella frase irridente e sbagliata pronunciata da Giulio Andreotti, il quale, al momento della riunificazione, disse: “Amo talmente la Germania che ne preferivo due”. Un’affermazione fuori luogo, irrispettosa e senz’altro da condannare ma, al tempo stesso, significativa dal punto di vista geopolitico, in quanto espressione di un comune sentire europeo circa i rischi legati alla rinascita di un Paese che, purtroppo, non ha mai smesso di inseguire il mito del pangermanesimo e non ha mai accantonato quello spirito di dominio e di conquista che da sempre caratterizza le sue élite.

Venticinque, e l’idea che ne sia valsa comunque la pena, benché il cammino da compiere sia ancora molto lungo, impervio e caratterizzato da un senso di rivalsa ormai ingiustificabile.

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