Benvenuti nell’era della politica format. Un’analisi a tutto tondo

ROMA – Piangiamo Armando Cossutta: uno degli ultimi comunisti non pentiti, uno degli ultimi esponenti politici ad aver interpretato il proprio ruolo con disciplina, onore e dignità ma, soprattutto, un galantuomo coerente com le sue idee fino alla fine, senza paura e senza cedimenti, senza mai unirsi alla massa, senza mai scadere nel conformismo né, meno che mai, nel demone dell’opportunismo cinico e privo di prospettive.

Piangiamo un signore dai valori antichi che mancherà non solo a chi si riconosce nella sua storia e nelle sue stesse convinzioni ma anche agli avversari, i quali perdono un interlocutore, un punto di riferimento sia pur nella legittima ostilità e un modo di intendere la politica e il confronto pubblico di cui tutti, al di là della nostra visione del mondo, proviamo nostalgia.
E ci immergiamo nella tristezza del presente, in questa politica ridotta a format, a mera esibizione televisiva, a intermezzo pubblicitario buono per tutte le stagioni: una tragica gestione del potere per il potere di cui il renzismo, al pari del berlusconismo, non è che l’apice, non certo l’ispiratore di un’ideologia devastante che nasce altrove e interviene nel nostro dibattito pubblico unicamente a causa del servilismo tipico di una parte della nostra classe dirigente e del cedimento culturale, prima ancora che politico, di chi avrebbe dovuto opporvisi e invece ha preferito divenire gregge.
L’abbiamo chiamata politica ma, in realtà, non lo è: è “non-politica”, chiacchiericcio inutile, diatriba fondata sul nulla e totalmente priva di idee, scontro di personalismi fra personaggi ormai diventati ospiti fissi dei salotti televisivi e leader, più o meno colti, che, volenti o nolenti, sono costretti ad adattarsi al contesto di sfacelo generale nel quale siamo immersi.
Andiamo a osservarli da vicino.

Renzi e il “partito Xena”

Quando ero bambino, su Italia 1, andava in onda un telefilm fantasy ambientato nell’antica Grecia, pieno di anacronismi e imprecisioni: si chiamava Xena e aveva come protagonista un’eroina, un tempo feroce e malvagia, poi divenuta buona, che per riscattare il proprio passato si batteva al fianco dell’umanità contro lo strapotere, il dominio e i soprusi degli dèi dell’Olimpo e di tutta una serie di figure malvagie che mettevano costantemente a rischio la sopravvivenza e il benessere dei più deboli.
L’introduzione recitava: “Al tempo degli dèi dell’Olimpo, dei signori della guerra e dei re che spadroneggiavano su una terra in tumulto, il genere umano invocava il soccorso di un eroe per riconquistare la libertà. Finalmente arrivò Xena, l’invincibile principessa guerriera forgiata dal fuoco di mille battaglie. La lotta per il potere, le sfrenate passioni, gli intrighi, i tradimenti furono affrontati con indomito coraggio da colei che, sola, poteva cambiare il mondo”.
Ecco, quando ascolto la narrazione renziana, talvolta, mi torna in mente quel telefilm, con i suoi errori e le sue assurdità, le sue esagerazioni e il suo essere un miscuglio di stili, registri comunicativi ed epoche storiche che lo rendevano un polpettone simpatico agli occhi di un bambino ma che oggi vedrei con lo stesso spirito col quale si va al cinema a vedere un cinepanettone: uno svago per trascorrere due ore in allegria, senza nessun impegno intellettuale. Il guaio è che qui è in gioco il governo del Paese e gli scherzi, le battute, la confusione e la narrazione epica di se stessi, in questa sorta di auto-epopea noiosa e inconcludente, non sono ammessi.
L’ultima Leopolda, in tal senso, è stata emblematica: una stucchevole passerella autocelebrativa, una sfilata di volti noti, corredata da un soporifero question time ai ministri clou del renzismo e da quella pessima scelta, mediatica e politica, di additare al pubblico ludibrio i titoli di alcune testate sgradite.
Ma perché avviene tutto questo? Perché Renzi sembra aver smarrito la freschezza, il brio e la brillantezza di un tempo? Perché è oggettivamente in affanno: in Europa non lo stimano o, quanto meno, non si fidano e non sopportano più il suo populismo; in casa ha una minoranza che, di fatto, anche se non lo ammetteranno mai, è ormai un partito a sé, con un segretario di nome Speranza, nominato da Bersani e approvato da tutti gli altri, e una linea politica non solo alternativa ma direi opposta rispetto a quella ufficiale del nascente Partito della Nazione.
In pratica, sta avvenendo a parti invertite ciò che accadeva ai tempi di Bersani, quando erano i renziani a sferrare l’assalto al quartier generale promuovendo una linea inconciliabile con quella della classe dirigente di allora. Tutto ciò è dovuto al fatto che il PD non è mai stato, o comunque non è più da tempo, un partito ma un insieme di correnti litigiose e in guerra fra loro che oggi sono al governo più per mancanza di alternative ed esigenze di stabilità internazionale (peraltro intorno a uno schema ampiamente logoro e ovunque fallimentare) che per effettivi meriti.
Non un partito, dunque, ma un format, condotto da un mattatore zavorrato dall’obbligo di non contraddire mai se stesso e la sua effettiva natura di istrione e di solista. Peccato, ripeto, che il governo del Paese sia un’altra cosa e che scambiare una riunione di vecchi amici per una classe dirigente in grado di governare la complessità di una fase storica tremenda porti a commettere una serie di errori che, alla lunga, si pagano.

Bersani e il partito dell’indignazione

Come detto, quello di Bersani è ormai un partito nel partito, un anti-partito o, più semplicemente, il PD dell’era Bersani, solidamente ancorato a sinistra, contrapposto al PDL, Partito della Leopolda (o della Nazione), saldamente ancorato nel centrodestra, con i contributi di tutto il ceto politico berlusconiano in fuga da un leader che ormai ha fatto il suo tempo e con l’aggiunta di pezzi importanti dei ceti dominanti, in ambito bancario, imprenditoriale e finanziario, i quali garantiscono soldi, appoggi, visibilità mediatica e tutto ciò che serve per agevolare l’ascesa al potere di un leader.
Il punto è che Renzi è debole, debolissimo, nervoso e ormai paralizzato, come si evince dalla tragicommedia che sta andando in scena sull’elezione dei giudici costituzionali, ma la classe dirigente bersaniana, pur essendo composta da ottime persone e buone individualità, non ha più né la forza né la credibilità necessarie per presentarsi come un’alternativa al renzismo, avendo oltretutto votato la maggior parte delle fiducie e delle “riforme” varate da questo governo. Pertanto, si arrampicano sugli specchi, rinviano all’infinito una scissione inesorabile, non riescono più a fornire una spiegazione attendibile che sia una del perché restino pervicacemente in uno spazio politico dal quale sono stati, di fatto, espulsi e si aggrappano alla vaga speranza che Renzi si logori e cada autonomamente. Ciò che non hanno capito, anche se ormai comincio a pensare che ne stiano prendendo consapevolezza, è che quando ciò accadrà loro affonderanno con lui, essendo considerati dall’opinione pubblica il volto pulito di un’esperienza disastrosa e non avendo le risorse per smentire questa vulgata.

Fassina e la sinistra tradizionale.

Fassina è un personaggio sorprendente. Da alfiere del bersanismo e strenuo difensore della linea ufficiale, con tanto di scivoloni come la volta in cui andò a dire davanti alle telecamere che Rodotà era un mezzo sconosciuto mentre Marini avrebbe potuto ricostruire una connessione sentimentale con il Paese, a soggetto coraggioso e dotato di una notevole visione politica. Ha abbandonato il PD dopo una lunga battaglia interna a testa alta, è stato abile ad aggregare intorno a sé intelligenze come quelle di Folino, D’Attorre, Galli e la Gregori, si è unito al gruppo parlamentare di SEL senza accampare sciocche rivendicazioni da primadonna e si è candidato a sindaco di Roma per fornire una rappresentanza adeguata ad una sinistra che, specie nella capitale, è forte e che senza la sua decisione sarebbe scivolata, in gran parte, nell’astensione.
Non è un leader ma sarebbe un ottimo ministro del Lavoro e la sua visione del mondo, pur rappresentando a pieno la sinistra tradizionale, va comunque nella direzione giusta e riapre un discorso che trent’anni di liberismo arrembante sembravano aver chiuso per sempre.

Civati e la Leopolda grillina

Il vero difetto del pur bravo e colto Pippo Civati è che non si capisce bene cosa voglia fare da grande. L’esperimento di Possibile è senz’altro interessante e da seguire con molta attenzione ma sconta diversi limiti.
Benché a Verona, domenica scorsa, sia andata in scena un’assemblea di tutto rispetto, con la presenza di personalità come il professor Pasquino e Stefano Feltri, Vito Gulli e molti altri soggetti di spessore, l’esordio a Napoli, lo scorso 21 novembre, non è stato dei migliori.
Possibile, al momento, somiglia un po’ alla Leopolda renziana prima maniera, prima che Renzi smettesse di dissimulare la sua vera natura, e un po’ alla parte più costruttiva del Movimento 5 Stelle, senza direttorio e con alcune ottime idee. Il guaio, ed è bene che Civati lo capisca alla svelta, è che gli ibridi piacciono poco e non vanno molto lontano. Si doti, pertanto, di un pensiero autonomo, diventi il partito dei senza voce e dei senza potere, chiuda, come sta già facendo, porte e finestre ad eventuali alleanze e compromessi al ribasso con il fu PD, coniughi questa doverosa rappresentanza sociale con il meglio del mondo culturale e intellettuale che guarda con simpatia a questo generoso tentativo di far nascere una sinistra all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo e non commetta mai il drammatico errore, tipico degli stellini, di credere di poter essere autosufficiente o di poter andare da solo, anche perché, con le percentuali di cui è accreditato il suo progetto politico e con la visibilità mediatica che ha, risulterebbe ridicolo.

Salvini e la destra che fu

Salvini è furbo, sa comunicare bene, punta su un messaggio semplice e di facile comprensione agli occhi di un vasto pubblico ma non costituisce e non costituirà mai un’alternativa di governo, e il primo a saperlo è proprio lui. Ciò che gli interessa, pertanto, è riunire i cocci della destra che fu, recitare la parte del perfetto lepenista, al punto da trasformare un partito che ha la secessione dall’Italia fra le sue ragioni costitutive in un partito fintamente nazionalista, alleato con l’ultra-nazionalista Meloni e con quel che resta di Forza Italia, e conservare il proprio posto al sole, quadruplicando l’attuale rappresentanza parlamentare.
Il sogno inconfessabile di Berlusconi sarebbe quello di sbarazzarsi di lui e di ricostruire il centrodestra intorno a una figura diametralmente opposta, ma tutto sommato all’ex Cavaliere Renzi va benissimo: realizza le riforme che a lui non fu consentito di varare, stravolge la Costituzione come lui ha sempre sognato di poter fare e tutela abbondantemente i suoi interessi. Che Verdini e Alfano lo sostengano pure: lui ormai ha fatto il suo tempo e lo sa.

Il M5S e il rischio mortale

In tutto questo marasma di partiti alla frutta, post-ideologia, narrazioni epiche del nulla, riferimenti culturali inesistenti e idee scarse, per non dire mancanti, l’unica compagine che sembra avere una visione del mondo chiara e ben definita è proprio la formazione più trasversale, post-ideologica e, sulla carta, strampalata di tutte.
Il Movimento 5 Stelle, ormai, ha imparato come si sta al mondo, ha accantonato le furie “tuttacasiste” degli esordi e ha lasciato crescere e maturare una classe dirigente di buon livello, ma qui iniziano i suoi guai. Innanzitutto, ha un grosso problema con l’ala più intransigente e “duropurista” del suo elettorato: coloro per cui l’idea stessa di governare non deve essere neanche presa in considerazione e qualunque accordo o alleanza è sempre e comunque un compromesso al ribasso. In secondo luogo, ha un problema di vertici, in quanto la frangia peggiore del loro elettorato è ancora molto condizionante e fa sì che alla guida del movimento ci siano tuttora alcune persone che considerano la politica come una sorta di continuazione del Sacro Blog e dei social con altri mezzi. In terzo luogo, non ha ancora ben chiaro cosa voglia diventare da grande: se voglia vivere una fase di eterna scapigliatura, con tratti demagogici e un po’ adolescenziali, o voglia davvero diventare l’architrave di una coalizione civica credibile e radicalmente alternativa al renzismo.
Il fatto che qualche duropurista si brucerà alle prossime amministrative sarà un dramma per le città che dovranno continuare a subire il mal governo del Partito della Nazione ma sarà anche una straordinaria occasione di svolta per quella parte degli stellini cui la rete, da tempo, non basta più e che in Parlamento e nel Paese sta portando avanti battaglie encomiabili. Mai come nel loro caso, è valido l’adagio latino secondo cui ognuno è artefice della sua fortuna (o sfortuna).

Questo è il quadro della politica format cui siamo costretti ad assistere nel nostro Paese. È abbastanza desolante, in quanto è la somma di opposte debolezze in equilibrio sul vuoto. Il nostro auspicio è che questa fragilità strutturale di un sistema giunto ormai alla canna del gas non abbia conseguenze tragiche sulla vita di milioni di persone, a cominciare dai ceti sociali più deboli e sfiancati dalla crisi.

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