Il M5S tra Grillo e Casaleggio

ROMA – Tralasciamo la spinosa vicenda delle mail dei parlamentari e del presunto spionaggio ordito dalla Casaleggio Associati: non sappiamo se sia accaduto realmente e ci auguriamo di cuore che dietro alle denunce di questi giorni ci siano anche tante forzature giornalistiche.

E tralasciamo pure il cosiddetto “Codice Casaleggio”, presentato a Roma e fatto sottoscrivere ai candidati al consiglio comunale, introducendo di fatto il vincolo di mandato per gli eletti, severamente vietato dall’articolo 67 di quella Costituzione che pure il Movimento 5 Stelle sostiene di voler difendere a spada tratta nel corso del referendum d’autunno. 

Tralasciamo tutto questo e occupiamoci delle ultime vicende che hanno coinvolto l’universo stellino, cominciando dal ritiro di Patrizia Bedori dalla corsa per Palazzo Marino.

Ricordate Rosa Capuozzo e lo scandalo di Quarto? Ebbene, finché non è emersa la triste vicenda del consigliere De Robbio e di questo giovane sindaco in difficoltà per un presunto ricatto legato a un abuso edilizio, per la maggior parte degli italiani, compreso il sottoscritto, l’unica Quarto esistente era l’amena frazione genovese dalla quale Garibaldi salpò con i Mille alla volta di Marsala per compiere l’impresa che avrebbe condotto all’Unità d’Italia.

Al netto delle risibili strumentalizzazioni del PD, dunque, questo comune di quarantamila anime nel quale, per giunta, la camorra l’aveva sempre fatta da padrona, non intaccava minimamente la rispettabilità di un movimento che, comunque, ha avuto il merito di prendere le distanze dal suo stesso sindaco, come da altri soggetti coinvolti in vicende giudiziarie, e di ammettere pubblicamente i propri errori nella selezione della classe dirigente. E proprio qui emerge il vero limite del M5S: passi, infatti, la piccola località campana, passi la figuraccia di Gela, col sindaco espulso in quanto dissidente (la storia degli scontrini e del mancato taglio dello stipendio è un’altra scusa che ha fatto il suo tempo e che, se vogliono essere minimamente credibili, devono accantonare al più presto), passino le incertezze nell’amministrazione di Livorno, passino i crescenti contrasti con il dissidente per antonomasia Pizzarotti, che ormai vive il suo rapporto col movimento da separato in casa, passi tutto questo, ma quando in una città-vetrina come Milano presenti una candidata senz’altro perbene ma palesemente inadeguata al ruolo e poi la costringi, di fatto, a ritirarsi dalla competizione perché le fai mancare il sostegno del partito, in quel momento autorizzi milioni di cittadini a domandarsi quale sia la credibilità di questo progetto e, quel che è peggio, se ce ne sia ancora una.
Non bisogna dimenticare, difatti, che nel 2011, quando il M5S ancora quasi non esisteva, tanto che nel capoluogo lombardo prese poco più del 3 per cento, all’epoca ebbe comunque il merito di lanciare un ragazzo poco più che ventenne, Mattia Calise, di grande preparazione e competenza, il quale stupì tutti in varie uscite per il suo fiuto politico e per la sua capacità di proporre un modello di città non poi così dissimile da quello che si è affermato con la buona amministrazione di Pisapia. Ora, perché non ricandidare lui? Perché probabilmente il nostro, sapendo di avere poche possibilità di vincere, ha deciso legittimamente di puntare le sue carte su una candidatura in Parlamento, e da qui si evince un altro grande limite di questa struttura, con i suoi dogmi, i suoi tabù e le sue regole assurde che costituiscono la negazione stessa della politica. Perché mai un ragazzo che si è candidato a Milano e non ha vinto non può candidarsi l’anno successivo in Parlamento? È una scelta che non ha senso, che impedisce a dei giovani di farsi conoscere e apprezzare per le proprie capacità e che, oltretutto, priva il M5S di candidati di valore in contesti nei quali, come a Milano, non si sono ancora palesati nuovi “cittadini” all’altezza della sfida.

Questa follia fa il paio con il limite dei mandati, con i vincoli iniziali legati alla partecipazione ai talk show, con il mito dell’autosuficcienza (che ricorda tanto la “vocazione maggioritaria”, in realtà minoritaria, di veltroniana memoria, poi sublimata da Renzi con quel mostro dell’Italicum), con l’eccessiva importanza attribuita alla rete, come se fosse “un Paese pulito in un Paese sporco”, quando altro non è che il riflesso distorto e spesso peggiorativo del Paese reale, e con altre formule magiche che hanno sì trasformato questa compagine in una componente strutturale del sistema politico italiano ma le impediscono, al tempo stesso, di compiere il salto di qualità definitivo e di proporsi come un’effettiva alternativa al renzismo. 

Il quadro, purtroppo, non migliora nel resto d’Italia, dove, a parte Torino, la cui candidata stellina è davvero in gamba e ha ottime possibilità di battere Fassino al ballottaggio, il casaleggismo sta rivelando tutti i propri limiti nel trasformare una brillante agenzia pubblicitaria in un partito politico degno di questo nome. 

A Bologna, per dire, il prode Bugani, il cui avversario Andraghetti è stato casualmente espulso per essersi permesso di chiedere primarie vere e di manifestare un dissenso non di facciata nei confronti del “candidato naturale” (cit. Di Maio), non ha alcuna chance di battere il sindaco uscente Merola, in quanto persino il più critico degli uomini di sinistra, che mai perdonerà al buon Virginio il suo temporaneo innamoramento renziano, tramontato nel momento in cui i renziani veri hanno cominciato a fargli la guerra sotto le Due torri, persino quel militante, stremato dalla rabbia e dalle delusioni, in un eventuale ballottaggio preferirà astenersi o, comunque, puntare su un brav’uomo e su un discreto sindaco piuttosto che andare alla ventura, affidandosi a un soggetto la cui ortodossia risulta fastidiosa persino a una parte dei militanti e degli elettori stellini (vedasi alla voce polemiche post-Regionali 2014). E Bologna, oltre ad essere la storica capitale rossa, è diventata anche la città grillina per eccellenza: la sede del primo V-Day, il luogo in cui ha studiato un’attivista di lungo corso, oggi parlamentare, come Giulia Sarti, il capoluogo in cui si sono manifestate le prime espulsioni, su tutte Favia, la Salsi e, di recente, Andraghetti, dunque una città viva, aperta, multiforme, con un tessuto sociale attento ed informato che adora lo spirito critico e le battaglie condotte a viso aperto e non sopporta, al contrario, i giochi di palazzo e le camarille in salsa romana.
Non è un caso se l’8 settembre 2007, solo a Bologna, le tre leggi di iniziativa popolare proposte da Grillo ottennero un numero impressionante di firme; non è un caso se Bologna è stata la città di gente come Dozza, Dossetti, Fanti, Zangheri e Imbeni, con un’università dalla storia millenaria che ha visto nascere think tank come Nomisma e Prometeia e una casa editrice culturalmente agguerrita come il Mulino, oltre ad aver ospitato docenti e intellettuali come Eco, Andreatta, Ruffilli, Pasquino e lo stesso Romano Prodi; e non è un caso, infine, che bisogna venire qui, al confine fra l’Emilia e la Romagna, se si vogliono trovare le radici della Costituzione nata dalla Resistenza, le radici della libertà d’informazione (non ci dimentichiamo che Bologna è la città di Enzo Biagi) e le radici del miglior riformismo di sinistra incarnato dal progetto dell’Ulivo (figlio, guarda caso, dei “bolognesi” Prodi e Andreatta). Capirete, quindi, che non è proprio campata in aria la critica di quanti sostengono che l’ortodossia buganiana non sia il miglior viatico per provare a vincere in un contesto del genere.

E a Roma, invece? A Roma il M5S ha sbagliato tutto più qualcosa. Non perché Virginia Raggi non abbia alcuna possibilità di vincere (i disastri altrui, purtroppo, la vedono favorita) ma perché il guru ha scelto una strategia che non fa i conti con la realtà. Il suo calcolo, infatti, è stato il seguente: la sinistra, per quanto ammaccata e provata dalla tragica fine dell’esperienza Marino, c’è mentre la destra nuota nel caos ed è in preda al delirio più assoluto; pertanto, quello deve essere il nostro bacino di riferimento nella Capitale. Da qui la scelta della Raggi, proposta da Di Battista, ossia dall’ala sinistra del Direttorio pentastellato, ma sostenuta da figure marcatamente di destra come la Taverna e la Lombardi e, non a caso, molto stimata dallo stesso Berlusconi e da una parte dei salotti buoni capitolini (da qui, le paginate in sua difesa apparse su “Il Tempo”). Peccato che Renzi sia la destra, che Giachetti non sia certo la sinistra e che la destra dichiarata possa contare su una rosa di candidati che va dal bel Marchini all’ex missina Meloni, fino all’onnipresente Storace mentre ad essere piuttosto sguarnita è proprio la sinistra, dove l’unico che finora ha avuto il coraggio di lanciarsi è stato Stefano Fassina, al contrario di Bray (che ha già declinato l’invito a candidarsi) e dell’ex sindaco Marino che non sembra aver voglia di rimettersi in gioco. 

Se davvero il M5S avesse voluto imprimere una svolta alla Capitale, si sarebbe dovuto trasformare nel propulsore di una Coalizione civica, guidata da un esterno di grande spessore come il professor Settis o Elio Lannutti, e avrebbe dovuto puntare ad aggregare intorno a sé quella che ai tempi del PCI veniva chiamata la “Sinistra indipendente”, fucina di menti eccezionali e portatrice sana di idee e cultura politica rivoluzionaria. 

E lo stesso avrebbe dovuto fare a Milano, magari presentando proprio quel Gherardo Colombo che, candidato dai 5 Stelle, avrebbe fatto della sua candidatura un manifesto politico in favore della legalità, dell’onestà e della buona amministrazione, proponendosi come la continuità naturale con il modello Pisapia. 

A Napoli, infine, il candidato sindaco degli elettori del M5S c’è già e ha già dato ottima prova delle sue qualità amministrative: si chiama Luigi De Magistris e probabilmente rivincerà, dovendosi confrontare con le macerie del fu PD, con il vuoto di un centrodestra quasi inesistente e con l’evanescenza di un movimento che, a furia di perseguire la via autarchica, ha finito col non saper più mettere l’orecchio a terra, non riuscendo a comprendere i desideri della sua stessa base.

Al che, sorge il dubbio che nel M5S sia in atto un passaggio di fase da seguire con la massima attenzione: se i ragazzi che scelsero questo bislacco ma comunque propositivo contesto ai tempi del comico genovese lo fecero con l’obiettivo di ricostruire una comunità politica degna di questo nome, mentre la sinistra era ancora ammaliata dalle sirene della Terza via blairiana (il renzismo ha radici antiche!), col suo carico di thatcherismo, correntismo esasperante, leaderismo dissimulato e individualismo egoista a grappoli, oggi quel movimento appare sempre di più un partito tradizionale, con i suoi leader, le sue diverse anime, le sue ambizioni di potere, le sue correnti nascoste ma comunque presenti nel dibattito interno e un bacino elettorale che lo rende attrattivo anche per chi intende utilizzarlo unicamente come autobus per soddisfare unicamente i propri interessi.
Addio scapigliatura, addio illusioni, addio spontanea ingenuità, addio impegno gratuito e disinteressato, addio movimentismo e benvenuta politica, nel senso meno nobile del termine. Il guaio è che per trasformarsi in un partito vero, cosa peraltro auspicabile, quella compagine dovrebbe accettare le regole della politica, intesa stavolta nel suo significato più elevato: congressi, dibattito aperto e condotto in luoghi fisici, non sulla rete, un segretario, un gruppo dirigente, una maggioranza e una minoranza, senza scadere nel correntismo che ha devastato i partiti tradizionali ma senza nemmeno esibire questo monolitismo da operetta che, oltre a non essere mai esistito da nessuna parte, è la negazione stessa del confronto democratico. 

Avrebbero bisogno, in poche parole, di una cultura politica simile a quella di cui Iglesias e gli altri professori della Complutense di Madrid hanno innervato Podemos e, ovviamente, di schierarsi là dove batte il cuore della maggior parte dei loro elettori: a sinistra, al fianco di Corbyn, di Sanders, di Tsipras, di Iglesias e di tutti coloro che vogliono impegnarsi per promuovere un modello sociale, economico e di sviluppo radicalmente alternativo sia al liberismo hard della destra sia al liberismo light della falsa sinistra. 

Questo Grillo l’ha capito e, non essendo in grado di far compiere questo salto di qualità alla sua creatura, si è sostanzialmente ritirato. Casaleggio, invece, sembra preferire la via populista, senza rendersi conto che ha in Renzi e in Salvini due avversari pressoché invincibili. E poiché il Direttorio altro non è che un’emanazione del nuovo leader del movimento, sta ai gruppi parlamentari, ai dirigenti locali non allineati e alle tante ottime energie che animano questa formazione trovare la forza e la determinazione per mettere in discussione un simile schema, contribuendo a ricostruire un Ulivo che abbia le idee di Sanders e Corbyn, la radicalità di Tsipras e Iglesias e la capacità di rendere nuovamente protagonista una generazione che si sente esclusa da tutto. Se non lo faranno, la sfida sarà fra il Matteo di Rignano e quello di Milano, entrambi già sicuri delle rispettive parti in commedia.

Roberto Bertoni

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